Nessuno ha raccontato la Resistenza meglio di Cesare Pavese. Lo scrittore delle Langhe ha descritto la lotta partigiana spogliandola di ogni ideologia, analizzandola con una fine capacità critica in grado di andare oltre la morale vigente per affermare la centralità dell’uomo. Nella poesia Tu non sai le colline, contenuta nella raccolta La terra e la morte (1947) dedicata a Bianca Garufi, con struggente potenza lirica racconta l’inutilità della guerra, di ogni guerra, attraverso l’immagine del “sangue” sparso che evoca un sentimento lancinante di pietà.
Già nel romanzo La casa in collina (1949), Pavese affermava l’ineludibile solitudine dell’individuo dinnanzi alla tragedia della Storia.
Con impegno intellettuale lo scrittore riesce a guardare oltre le lenti dell’ideologia per raccontare il pathos e l’angoscia di una Resistenza fatta di fatica, sangue e morte, che va ben oltre l’eroismo e l’orgoglio militante. Come il suo protagonista, il professore antifascista Corrado, Cesare Pavese si pone un dilemma di coscienza: deve combattere nella Resistenza, arruolarsi nelle file partigiane, oppure condannare l’insensata sofferenza della guerra? La collina diventa un rifugio per il protagonista, dal quale osservare la spietata tragedia del proprio tempo; Corrado scruta la barbarie che imperversa interrogandosi sulla possibilità di agire, mentre il sangue dei partigiani macchia le colline ridenti della sua infanzia.
Nel romanzo è presente una delle riflessioni più intense e veritiere sull’inutilità della guerra, perché in fondo “ogni guerra”, ci dice Pavese “è una guerra civile”.
Questa è forse la lezione più importante da ricordare nell’anniversario del 25 aprile che ci rammenta la gratitudine e la responsabilità di essere vivi e di poter affermare le nostre idee proprio grazie a coloro che, per quelle stesse idee, si sono sacrificati. Pavese interroga i morti della Resistenza, chiedendo loro la risposta - muta - che lui non è in grado di dare:
Ci si sente umiliati, perché si capisce che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Il paesaggio collinare delle Langhe, a ridosso del fiume Po, significativamente ritorna nella poesia Tu non sai le colline in grado di restituirci una folgorante immagine della lotta partigiana, sminuendone l’eroismo per far emergere un umanissimo e struggente sentimento di pietà.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Tu non sai le colline” di Cesare Pavese: testo
Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.
“Tu non sai le colline” di Cesare Pavese: analisi e commento
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Sembra una poesia descrittiva quella di Pavese, in realtà il testo è intessuto di metafore. Tu non sai le colline fu scritta nel 1947, mentre l’autore si stava dedicando ai Dialoghi con Leucò in cui intrecciava Storia e Mito. La coincidenza non è casuale, in entrambi i testi Pavese riversa un potente immaginario simbolico, attraverso la poesia lo scrittore cerca di rileggere la Storia, la sorte dei popoli e delle civiltà.
Tramite l’immagine emblematica, truce e schiacciante del sangue che imbratta il verde declivio delle dolci colline, Pavese riflette il dolore insensato della guerra e il terribile sacrificio umano che essa implica.
Ecco che nel finale il soldato morto diventa “un cencio di sangue”, ma lui almeno attraverso il sacrificio estremo è riscattato dalla dignità del “nome” di cui gli altri, disertori, invece si sono spogliati così come delle armi. La morte avviene in un silenzio avvilente - fa così poco rumore la fine di una vita? - al cospetto di un cielo che Pavese ritrae significativamente come “vuoto” evocando una “divina indifferenza” di montaliana memoria.
Il “male di vivere” di Montale qui non ha il rumore roco del fiume “strozzato che gorgoglia”, ma è tutto racchiuso nell’immagine del “cadavere stramazzato” e si consuma in un’azione senza suono: il soldato “muore tacendo”, levando solo un pugno chiuso come ultimo segno della propria ribellione dinnanzi a un’esistenza che sembra tradirlo. Il suo sacrificio viene reso attraverso l’evocazione brutale - dal forte impatto visivo - del sangue rosso che si espande come una macchia purpurea, atroce visione di morte.
Infine appare la persona della donna che fa da contraltare ai soldati. Chi è quella donna che attende sulle colline? Pavese la carica di un forte valore simbolico: quella donna può essere la madre, la moglie, la sorella o l’amante dei partigiani, potrebbe persino essere la madre del soldato morto. Al principio la donna osserva senza giudicare “una donna ci guardava fuggire” e nel suo silenzio, solo apparentemente passivo, sembra quindi legittimare la fuga dei soldati.
La donna pare estranea alle logiche spietate della guerra, come una novella Maria assiste impotente al sacrificio dei soldati - che potrebbero essere figli del suo grembo - e diventa raffigurazione stessa della Pietà. Capiamo che anche lei, a suo modo, è una vittima perché stringe nel cuore un dolore senza consolazione; forse la perdita di un caro amato. Nessuna donna partorisce i suoi figli per mandarli a morire alla guerra: quella figura femminile è la metafora della vita che resiste e si contrappone con tenacia a uno scenario di morte.
Non a caso, nel finale, Pavese evoca di nuovo l’immagine della donna che appare all’orizzonte come una speranza:
Una donna ci attende sulle colline.
Visione quasi divina, Donna, Madre, Dea, è la Vita che attende i soldati oltre l’inferno della guerra. Gettando le armi, rifiutandosi di morire, gli uomini guardano a lei come a una promessa, un destino, un porto sicuro a cui fare ritorno. Ora torneranno dalle loro donne, dalle loro sorelle, dalle loro madri, sceglieranno la Vita, rinnegando l’atrocità della guerra che li trasforma in “cenci di sangue” e non rende alcun onore al loro sacrificio.
Nella tragedia della guerra Pavese vede riflessa la natura violenta, primordiale e arcaica dell’umanità. In un commovente articolo pubblicato su L’Unità di Torino il 20 maggio del 1945, nell’immediato dopoguerra, che si intitola proprio Ritorno all’uomo, l’autore scrive parole che riportano al senso di comunità, di fratellanza, alla sacralità di ogni singolo individuo:
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo.
E ancora, un monito per i vivi, per coloro che restano, chiamati a svolgere un compito preciso, a rispondere a una nuova “chiamata alle armi” da combattere stavolta con la grammatica e la retorica, impugnando la penna come spada:
Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione.
Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo.
Tu non sai le colline è un’intensa lirica dal valore civile. In occasione dell’anniversario della Liberazione, non possiamo fare a meno di riportare alla memoria quelle “colline dove si è sparso il sangue”. Non le abbiamo viste, i nostri occhi non si sono soffermati sui cadaveri insanguinati di quei morti dagli occhi spalancati come un punto interrogativo, ma le parole di Cesare Pavese ce li restituiscono in tutta la loro evidenza reale e simbolica. Il “soldato che morì tacendo” diventa la raffigurazione straziante e misericordiosa di tutti i caduti della Resistenza, di coloro che si sono battuti in nome della Libertà.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Tu non sai le colline”: la poesia di Cesare Pavese per il 25 aprile
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Pavese, un grande di tutti i tempi.
Peccato averlo perduto troppo presto.