Umani da 6 milioni di anni. L’evoluzione della nostra specie
- Autore: Gianfranco Biondi, Olga Rickards
- Genere: Scienza
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Carocci
- Anno di pubblicazione: 2024
È convinzione di chi scrive che i nostri scrittori avrebbero tutto da guadagnare da un minimo di alfabetizzazione scientifica - conoscenze meno sommarie dell’umano in quanto specie, per esempio, della sua evoluzione, da cui una trama di ricerche (antropologia, neuroscienze, etologia) che inverasse su un piano filogenetico le intuizioni fulminanti del Nietzsche della Genealogia della morale.
Non per riproporre organiche tranche de vie sul modello zoliano ma per evitare di scrivere sciocchezze predarwiniane sì.
La tesi vale ancor più per i lettori comuni – s’intende, non si dovrebbero lasciare libri come Umani da sei milioni di anni. L’evoluzione della nostra specie di Gianfranco Biondi e Olga Rickards, l’editore è Carocci, nelle aule universitarie, come se fossero conoscenze destinate agli specialisti. Lo sciocchezzaio cultural-ideologico che infesta l’epoca in corso vedrebbe drasticamente diminuito il suo peso.
Poniamo, non sarebbe male capire di cosa esattamente parliamo quando diciamo genere Homo. Sarebbe più agevole per masse non sufficientemente scolarizzate liquidare un concetto mai domo, anzi prepotentemente ringalluzzito, come quello di “razzismo”. Magari ci tornerebbero utili studi come quelli di Cavalli-Sforza fra genetica e antropologia, nozioni elementari ma sicure sul DNA, su cosa comporti il mescolamento con Neandertal.
Ora, prima di comprendere cosa ci lasciano Lucy e la cultura neandertaliana, o cosa distingue l’umanità attuale, il lavoro in esame ricorda le principali tappe del processo scientifico che ha consentito di ricostruire la nostra storia evolutiva. A cominciare dalla tassonomia di Linneo, il cui creazionismo convinto non gli impedì di inserirci fra i primati escludendo così il dogma di una celeste preferenza a noi riservata da un qualche dio. Un secolo dopo Thomas Huxley rafforzò il paradigma delle somiglianze antropomorfe. Poi arriva Darwin che, solo per dirne una, smonta definitivamente il mito dell’essenza divina dell’etica umana e dimostra come anche il comportamento sia frutto dell’evoluzione. All’animale uomo naturalmente malvagio di Hobbes, Darwin oppone l’idea che si sia sviluppata anche una socialità positiva, necessitata dalla collaborazione fra individui, che avrebbe favorito l’adattamento – ben prima dell’uomo (basti vedere le ricerche sui bonobo, o sugli scimpanzé). Molti studi, ad avviso degli autori, richiamano quali aspetti fondamentali un’empatia cognitiva (sfrondata, riteniamo, degli orpelli ricamati in questi anni intorno a un concetto invadente), e un riconoscimento dell’altro che avrebbero favorito l’evoluzione (senza ricorrere a fantasmatici concetti quali “anima” o “spirito”).
Passaggi importanti sono stati poi il riconoscimento dell’importanza dei fossili, nonché le ricerche di antropologia molecolare. Nel libro si scrive dunque di primati e alberi genealogici, di ordini e infraordini, di tassonomie e morfologie, di DNA e pangenoma – è un lavoro, volessimo scherzare, evoluto (la conferma la si trova scorrendo l’aggiornata bibliografia), ma utile anche per il genere di lettore cui si alludeva all’inizio. Vi si spiega per esempio perché il razzismo è innanzitutto un errore scientifico: non è vero che popolazioni con il colore della pelle differente non avessero un antenato comune. E non si può fare a meno di guardare alle diverse morfologie dimenticando l’ambiente in cui si sviluppano. La specie Homo sapiens non è scomponibile in “razze” perché, dimostrò Richard Lewontin negli anni Settanta:
L’85-95% della variazione genetica totale della specie si riscontra all’interno di ogni singola popolazione e solo il rimanente 5-15% permette di differenziare un gruppo dall’altro. Vale a dire che due individui scelti a caso in comunità diverse sono solo di poco più variabili geneticamente rispetto ad altri due provenienti dalla medesima comunità.
Per arrivare al Sapiens, gli autori risalgono fino a tutto il genere Homo.
In esso si è realizzato anche un poderoso sviluppo della cultura e specialmente della sua componente tecnologica, che gli ha consentito di conoscere la pietra e realizzare manufatti capaci di migliorare il suo tenore di vita e sfidare il tempo. Infatti, l’uso di strumenti per procurarsi un’alimentazione ad alto valore energetico, come sono la carne e il midollo delle ossa, ha certamente avuto importanti implicazioni a livello evolutivo. E non solo per quanto riguarda i tratti anatomo-morfologici degli individui ma anche quelli comportamentali, relativi cioè all’aumento dell’interazione sociale indispensabile per programmare e organizzare la caccia agli animali di grossa taglia e notevole pericolosità.
Vista così, è tutta un’altra storia. Per non dire di quando il vecchio scimmione ha deciso di dare un’accelerata al suo divenire, 80000 anni fa, ma non d’emblée, come si è sempre pensato, non per salti genetici: perché la meta del simbolico, di ciò che chiamiamo “cultura”, era stata in realtà preparata nel tempo. Dai rinvenimenti nella grotta di Blombos, emerge che quegli umani realizzavano ornamenti che le rendessero più seducenti. E molti indizi lasciano pensare che le tombe (quel principio di civiltà invocato da Foscolo), fossero già note ai neandertaliani – e persino la musica.
La ricerca continua. Se gli scrittori di cui sopra fossero sufficientemente addestrati su ontogenesi e filogenesi - e minimamente informati persino su criptiche discipline come la paleo-neurologia - forse saprebbero dirci qualcosa di più convincente sul perché di tutta l’intelligenza accumulata in milioni di anni la specie non sa più che farsene e sembrerebbe essersi votata al suicidio collettivo. Si esagera? Non troppo.
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