Il 26 giugno 1924 nasceva a Porto Venere Giovanni Giudici, uno degli ultimi intellettuali del Novecento. Fu fautore di una poesia democratica, accessibile, dal tono colloquiale, capace di tradurre in parole vive l’esperienza spicciola della quotidianità.
La sua più importante raccolta La vita in versi, canzoniere di una vita, fu pubblicata da Mondadori nel maggio 1965 grazie al supporto di Vittorio Sereni, all’epoca direttore editoriale della casa editrice, che per primo riconobbe le qualità di Giudici poeta.
Come suggerisce il titolo del volume la poesia di Giudici tratta la vita, intesa nel suo susseguirsi casuale (talvolta caotico) di avvenimenti, lo fa con un lessico piano, lineare, pervaso di una malinconia struggente; sembra essere sempre a un passo dal cedere a un’angoscia esistenziale, però all’ultimo si trattiene dallo sprofondare, rimanendo come in bilico sull’orlo del baratro, limitandosi a guardare giù e a contemplarne le profondità. Nella Vita in versi di Giovanni Giudici troviamo il disagio di un intellettuale negli anni del boom economico, l’antitesi tra il mito del benessere - all’epoca ancora agli albori - e l’insoddisfazione dell’uomo costretto nella burocratizzazione di una rigida esistenza da impiegato.
La raccolta si apre con un chiaro proposito incipitario:
Metti in versi la vita, trascrivi fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Giovanni Giudici scrive dal “cuore del miracolo” il suo canzoniere moderno che ci propone un viaggio nella vita, dall’infanzia all’età adulta, e nel modo di percepire la realtà. Non è più il poeta vate d’annunziano l’io lirico di Giudici, ma un nuovo modello poetante senza aureola e senza gloria, l’uomo-impiegato che vive nella Milano in frenetica industrializzazione degli anni Sessanta del Novecento in cui si fa tangibile il fantasma dell’alienazione. Giudici fu impiegato all’Olivetti, prima di intraprendere la strada del giornalismo, e nella Vita in versi descrive perfettamente la condizione alienata del lavoratore sottoposto, oltre al disagio di una mente creativa costretta a vivere in un mondo impoetico.
C’è un componimento particolarmente emblematico dell’intera raccolta, si intitola Una sera come tante, che può essere letto come un lucido compendio della poetica di Giovanni Giudici.
Scopriamone testo, analisi e commento .
“Una sera come tante” di Giovanni Giudici: testo
Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusionisiano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tienequi, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.
“Una sera come tante” di Giovanni Giudici: analisi e commento
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In questi versi Giovanni Giudici riesce a dare voce a un sentimento molto comune: la quotidianità come condanna, la ripetizione intesa come prigione. Già il titolo “Una sera come tante” non ha niente di rassicurante in realtà, sottintende una forma di costrizione, una vita sempre uguale che non riesce mai a spiccare il volo ma è destinata a spegnersi in un grigiore mortale.
La prima strofa descrive una tranquilla serata domestica, con le consuete attività che anticipano il momento di coricarsi. Già possiamo percepire una nota dolente, un’angoscia sotterranea in questi primi versi: gli urli dei bambini/ i guaiti del cane, evocano uno stridore inequivocabile, un sentimento di fastidio.
Nella seconda strofa Giudici si concentra sulla riflessione personale, in cui emerge la frustrazione tipica di un impiegato che si rammarica di non riuscire ad avere “due ore al giorno almeno per me”, accusando una routine lavorativa e domestica che soffoca le aspirazioni e i desideri del singolo. Che fine hanno fatto i sogni della gioventù? la domanda rimane inespressa, ma aleggia nell’aria come fumo, rendendo l’atmosfera stagnante.
Troviamo un uomo, ora adulto, che non vede realizzate le sue ambizioni e serba un segreto rancore nei confronti del passato, dell’educazione cattolica ricevuta “mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti” che l’ha rinchiuso dentro norme troppo rigide e dritte redendolo incapace di mentire, di compiere un’azione sbagliata o meschina e così l’ha condannato a una vita piana, vile, anonima, “senza percosse” né tentazioni. Questa sezione si conclude con un desiderio di rivalsa, una sorta di aperto sberleffo all’educazione cattolica con cui è stato cresciuto:
basta con la bontà, qualche volta mentire.
La poesia di Giovanni Giudici sembra farsi portavoce dell’anti-eroe per eccellenza del Novecento: l’inetto, che trova la sua massima espressione in Zeno Cosini de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Proprio come Zeno anche il poeta vive un’esistenza comune e sembra ormai aver interiorizzato un’infelicità di fondo come modello di vita, riflettendo la nevrosi dell’uomo moderno. I due tuttavia non proseguono su binari paralleli, possiamo cogliere una sfasatura. Il protagonista del romanzo di Svevo si consola col vizio del fumo, mentre il poeta si lamenta di non essere “tentato da nulla”, che neppure il “vizio di bere” scuota la sua apatia esistenziale.
L’io lirico di Giudici però ricorda Baudelaire, la sua delusione dinnanzi a una realtà moderna così impoetica, così alienante, descritta perfettamente nella poesia Il cigno.
L’accusa, dapprima latente, si fa espressa e palese nella parte centrale della poesia in cui il poeta descrive la società di massa che lo circonda come “private persone senza storia”, ormai omologate dalla lettura di giornali, dall’assuefazione agli schermi della tv. La banale normalità di “una sera come tante” si ripete in tutte le case, in tutte le esistenze familiari come una sorta di “grigia innocenza” perché impedisce al singolo, all’individuo, di distinguersi in quanto tale. Giovanni Giudici ha il merito di porre l’accento su un problema che all’epoca non era ancora avvertito come un serio pericolo, ovvero le possibili derive della società di massa. Il poeta si rammarica dell’unicità soffocata da questi meccanismi ripetitivi e omologati, sente di essere diventato un semplice ingranaggio inserito nel mezzo di un ordigno complesso.
Cresce, in una sorta di climax, la voce dell’Io che rivendica la propria personale e peculiare identità insorgendo infine in una sfilza di domande retoriche:
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?
La conclusione della lirica sembra fare eco al Montale di Satura, quando con un tono sentenzioso da oracolo il poeta osserva che:
Pur sapendo che il nostro domani era già ieri da sempre.
Giovanni Giudici conclude il suo ragionamento filosofico pervaso da una sorta di apatia, da una stanca rassegnazione. Infine ci rivela, nuda, l’essenza tragica della vita. Ormai ha rinunciato a trovare “l’anello che non tiene” o “la maglia rotta nella rete” da cui balzare fuori, fuggire. Nella conclusione il poeta riprende a farsi beffe della sua educazione cattolica, vedendo in Dio, nel sommo demiurgo, un riflesso demoniaco. Non è pervaso di divina santità il Signore nell’alto dei cieli ma assume le sembianze luciferine di un “despota tranquillo” (il che richiama la “divina indifferenza” montaliana), che tiene in scacco gli umani come pedine.
L’ultimo atto di ribellione del poeta, nel tentativo di veder risarcita la sua individualità, consiste dunque nell’uscire dai binari dell’educazione ricevuta, nel compiere l’errore.
Nel verso conclusivo si riassume la resistenza dell’individuo all’assurda menzogna del mondo: uscire dallo schema, dalle rigide regole imposte, trovare assoluzione nel peccato.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Una sera come tante”: la vita di un impiegato nella poesia di Giovanni Giudici
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