Verso la libertà. Cerignola dal feudalesimo al Risorgimento
- Autore: Franco Conte e Antonio Galli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2011
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! -
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei “galantuomini”, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. - A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! -».
Sembra una pagina di cronaca nera cittadina, quella venuta fuori dalla penna di Giovanni Verga, ma la sua è letteratura, certamente commossa. Libertà è una novella appartenente al ciclo delle novelle rusticane, ispirata alla strage di Bronte del 1860: in un attimo entra nel vivo, senza prologhi, con un fazzoletto rosso sventolato dal campanile del paese, le campane che suonano senza sosta e la gente che grida Viva la libertà!. Scuri che scintillano al sole, nell’attesa di rovesciare la prepotenza di questo e quel signore. La folla non ha freni: ormai è accecata dal sangue che pare la esalti più del vino, e la morte sembra afferrare ognuno dei cappelli. Ognuno ha la sua buona ragione per essere ucciso: i signori immobilizzano i contadini a pochi soldi ed essi muoiono di fame; il prete, che al popolo aspira l’anima ma poi ha l’amante, dunque predica la salvezza dell’anima ma intanto condanna la sua; i poliziotti applicano le leggi solo sui più deboli; il guardaboschi non permette ai contadini neppure la legna per intiepidirsi d’inverno; il notaio è un succhiasangue, e deve morire; e suo figlio, travolto dalla folla, prega per non fare la stessa fine del padre, ma ormai morente, un contadino gli dà il colpo di grazia – Sarebbe stato notaio anche lui! Succhiasangue lui pure! –; e ancora il figlio d’una signora, lo speziale, il padrone di una vigna… sedici persone in tutto, così dice la storia, quella vera, a cui è ispirata la novella.
Siamo in Sicilia, ovviamente: una realtà a sé nel contesto dello Stato unitario nato nel 1860-1861 e differente dall’area territoriale cui si riferisce il volume di Franco Conte e Antonio Galli. L’impresa garibaldina non aveva inoltre deciso sorti migliori per l’Italia meridionale: nel giro di una manciata d’anni le difficoltà dell’“innesto” del nuovo in una situazione più che stabile, solida, quasi pietrificata come appunto quella dell’Italia meridionale feudalizzata da secoli, avevano generato gli spettri non solo della negatività, ma anche dell’impossibilità del progresso e del cambiamento.
Ma non siamo così distanti – eccetto il mare –, quando parliamo di Cerignola, dai quadri sconvolgenti del resto dell’Italia meridionale, affamata, ridotta allo stremo da pesanti e durature vessazioni da parte della feudalità laica ed ecclesiastica.
La rilettura della storia di Cerignola, nella delicata angolazione della più ampia feudalità meridionale, operata dai curatori Franco Conte e Antonio Galli dell’agile ma efficace volumetto Verso la libertà. Cerignola dal feudalesimo al Risorgimento, offre diversi spunti di riflessione circa il ruolo della città e della sua popolazione di fronte ai fatti della storia dall’antichità ai giorni nostri.
La città, di origini incerte, affannosamente riesce a intessere le trame della libertà, o meglio non riesce a districarsi dalle trame del signore, del feudatario, del latifondista.
Dopo aver messo a fuoco la drammaticità di eventi storico-sociali occorsi nell’arco dei secoli medioevali, le pagine del volume si soffermano con particolare slancio narrativo sul risentimento con cui i contadini di Cerignola, oppressi da secoli di sfruttamento, quasi inebetiti nella loro grossolanità primordiale, vogliono far valere il loro diritto alla terra approfittando del fatto che sono arrivati i garibaldini a portare la “libertà”, a cacciare i baroni, a distribuire le terre. Ma in realtà, la fine del dominio borbonico e l’annessione all’Italia, il passaggio dall’assolutismo al liberalismo, non comportano cambiamenti sostanziali nei rapporti di potere e nella gestione delle terre: infatti permane il latifondo e anche se si verifica il passaggio dalla proprietà nobiliare alla proprietà borghese i contadini continuano ad essere sfruttati ad un livello semi-feudale.
La nostra città è certamente il risultato di un cammino storico e culturale antico e le pagine del nostro volume ne attestano la collocazione in uno scenario storico difficile, in un Mezzogiorno da secoli in ritardo rispetto al resto d’Italia e d’Europa. Il Medioevo, sotto certi aspetti, è durato sino agli anni ‘50 del Novecento. Il dominio normanno e la sua particolare gestione del potere ha infelicemente inaugurato nella seconda metà dell’XI sec. una frattura strutturale tanto dell’economia quanto della società meridionale. Oggi, dopo nove secoli, quella frattura resta, sanguina ancora, resta incolmata.
Leggendo il volume ho avuto l’impressione che gli autori abbiano voluto rimarcare con fierezza l’appartenenza della città e della sua gente a un passato sicuramente difficile ma onorato, alla storia di una nazione che ha sofferto, ma a testa alta, per raggiungere l’unità che altri stati d’Europa avevano differentemente sperimentato sin dal Medioevo.
Per più di due secoli, abbiamo vissuto con l’idea di una correlazione necessaria tra nazionalità e cittadinanza. Un’idea che vede la cittadinanza definita innanzitutto per l’appartenenza a una nazione. Oggi, alla luce dei processi di globalizzazione economica e dell’attuale configurazione della politica internazionale, questa relazione sembra essere messa in discussione da fenomeni che caratterizzano una riconfigurazione del sistema politico attuale. Un primo fenomeno risiede nella formazione di entità sovrastatali e sopranazionali, come l’Unione europea.
Il concetto di nazione ha acquisito una crescente rilevanza a partire dal Settecento. Gli ordini eterogenei e fortemente gerarchizzati, propri della società feudale, scompaiono, perché qualitativamente e giuridicamente incompatibili con l’idea di nazione. La terminologia di «nazione» si costituisce nell’ultimo quarto del XVI secolo. Tuttavia, si deve attendere la Rivoluzione francese per vedere affermarsi in pieno il suo ruolo centrale nella costruzione dell’Europa moderna. La nazione comporta innanzitutto una dimensione storica e etnica, ma non esiste una definizione naturale di nazione: il suo aspetto etnico è esso stesso storico e politico.
Mi piace qui rievocare la definizione di «nazione» fornita da Ernest Renan alla fine dell’Ottocento, perché ben chiarisce il senso di questa pubblicazione: la nazione è essenzialmente un «principio spirituale», plasmato dalla convergenza di due elementi, l’uno risiede nel passato, l’altro nel presente e nel futuro. L’uno è la condivisione di una ricca eredità storica, l’altro è l’attuale consenso, il desiderio di vivere insieme, la volontà di far valere un’eredità indivisa.
In un’epoca in cui l’identità politica non viene più concepita entro il quadro nazionale, ma investe le diversità culturali e i flussi internazionali del capitale umano, il rapporto tra città e identità nazionale e «storia» si riduce alla pura erudizione piuttosto che al ragionamento filosofico intorno alla società attuale. Tuttavia, la relazione ancora stretta e in gran parte indiscussa tra territorio locale e identità nazionale e storia ufficiale costituisce uno dei tratti maggiori di una modernità dalla quale non siamo ancora pienamente usciti.
La coscienza che i popoli hanno di essi stessi si è modellata nella maniera in cui ciascun popolo si rappresenta secondo la storia riconosciuta dalle proprie istituzioni, la fa propria e la contrappone a quella di altre popolazioni. La presa di coscienza di sé da parte di un popolo presuppone l’affermazione della specificità del proprio destino storico, della sua lingua e della sua cultura. Ma questo processo, in cui la storia gioca un ruolo fondamentale, tende a fissare la nazione entro un’identità eterna e immutabile, sempre alle prese con le contraddizioni e i mutamenti della sua società.
Nell’attuale e nascente epoca post-nazionale, la storia non è mai stata così tanto oggetto di interesse. Il ruolo sociale dello storico si è trasformato: è passato da quello dell’insegnante dei valori nazionali e repubblicani a quello dell’esperto, e più recentemente a quello del portavoce delle culture dei vinti, di coloro che sono stati trascurati o esclusi dalla storia ufficiale.
È quanto accade con il volume di Franco Conte e Antonio Galli, caratterizzatosi come quadruccio di microstoria che ha il pregio di riflettere storia politica e socio-culturale di una collettività, in una cornice di riferimento italiano ed europeo, e opportunità di rilettura delle derive della memoria locale, nello sforzo di nutrirle e trasformarle in arma militante di libertà, riscatto culturale complessivo, e con l’invito allusivo a partecipare, prendere parte alle vicende della vita quotidiana, sentirsi membri attivi e non “ospiti” del nostro tempo.
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