In un altro articolo pubblicato da chi scrive, è già stata proposta una prima analisi del libro Il cosmo e il focolare. Opinioni di un cosmopolita dell’accademico sino-americano Yi-Fu Tuan. A parere dello scrivente, ne Il cosmo e il focolare il sistema ideologico del cosmopolitismo non sta in piedi, tuttavia il testo contiene pagine molto significative dedicate all’universo culturale cinese: veramente interessanti sono i passaggi dedicati dall’autore alla storia del Tibet, paragrafi che potrebbero anche sbigottire certi progressisti. Il presente scritto si concentrerà proprio su questo argomento.
Il cosmo e il focolare. Opinioni di un cosmopolita
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Cina e Tibet
Il professor Tuan, nella sua trattazione, premette subito che i tibetani e i cinesi han sono molto simili:
“I contadini tibetani sembrano non avere la percezione di essere stati spodestati o di aver dovuto cedere alla pressione cinese adottandone usi e costumi”.
Il geografo illustra come la reciproca simpatia abbia origini antiche:
“Il grande unificatore del Tibet, Song-tsen-gampo [595/605 ca.-649 ca.], ammirava la cultura cinese al punto da chiedere all’imperatore T’ai-tsung (627-650) della dinastia T’ang se gli consentiva di inviare a studiare a Ch’ang-an i suoi figli e i suoi fratelli più giovani”.
Anche diventando un paese comunista, la Cina non ha cancellato completamente il suo approccio tradizionale al multiculturalismo:
“Nell’interpretazione sovietica (e comunista) della realtà umana, la cultura costituisce un elemento sovrastrutturale: ciò che conta veramente e che, di conseguenza, deve restare nelle mani del governo centrale, è la realtà economico-politica. La Repubblica popolare negli anni Cinquanta fu profondamente influenzata da questa concezione e infatti istituì regioni autonome di diverso tipo, favorendo le differenze culturali”.
La Rivoluzione culturale (1966-1976) portò a una brusca interruzione di questo atteggiamento universalista, ma il suo oltranzismo non avrebbe potuto resistere a lungo e i suoi eccessi furono accantonati presto. Nel 1984, la Repubblica popolare promulgò una nuova legge orientata verso il ritorno a una maggiore tolleranza culturale, andando anche oltre i decreti degli anni ’50.
L’accademico sottolinea che il Tibet – almeno fino a qualche anno fa – è riuscito ad attrarre con grande efficacia l’interesse dei progressisti europei e americani, che ne hanno sostenuto acriticamente le aspirazioni indipendentiste e secessioniste. Durante tutto il Novecento, in Europa sono state formulate delle visioni idealizzate del Tibet, tramutato in un Altrove romantico “in cui vivevano monaci devoti, benevoli sovrani, nomadi amanti della libertà e contadini felici, il tutto soffuso dal calore mistico buddhista”. Grande successo ha riscosso soprattutto il libro Sette anni in Tibet (1953) di Heinrich Harrer (1912-2006), ma quel testo propone una prospettiva parziale e non priva di contraddizioni.
In questa sede, analizzare l’intero scritto dell’alpinista austriaco sarebbe impossibile, tuttavia vale la pena citarne almeno una riga. Harrer scrive che “tutta la cultura tibetana è ispirata dalla religione, come in tempi anteriori avveniva anche da noi” e leggendo questa riflessione è naturale chiedersi per quale motivo i progressisti europei e americani, che vogliono cancellare ogni traccia del Cristianesimo dalla cultura dei loro paesi, difendano uno stato teocratico quale era il Tibet. Perché, allora, i progressisti non rimpiangono anche lo Stato Pontificio? Forse perché lo Stato della Chiesa era cristiano? O semplicemente non era abbastanza esotico per le loro fisime esterofile?
L’attenzione dell’area anglofona (tanto i governi quanto i movimenti progressisti) per il Tibet è stata banalmente dettata dalla necessità di opporsi al governo cinese: si tratta di semplice machiavellismo.
Il Tibet era uno stato arretrato sotto ogni punto di vista, e – sia in ambito laico che religioso – era diviso in caste rigidamente definite. I cinesi portarono ai tibetani delle innovazioni tecnologiche e un nuovo benessere che furono accolti favorevolmente:
“Molti tibetani si resero ben presto conto dei vantaggi della medicina moderna, degli ospedali e di un’istruzione sanitaria, apprezzando al contempo le strade”.
Nel complesso, inoltre, le due popolazioni sono abituate a convivere pacificamente, ribadisce Yi-Fu Tuan:
“La religione domina la vita delle comunità tibetane, mentre è certo meno importante per gli Han. Ma la religione non è motivo di contrasto: il buddhismo, che entrambe le popolazioni abbracciano, non è una religione aggressiva e intollerante, e per di più il culto è ricco di elementi di sincretismo”.
Un aspetto particolarmente ipocrita della retorica dei progressisti europei (succubi dei loro cugini d’oltreoceano) risiede nella loro critica verso l’immigrazione dei cinesi han in Tibet, il cui tasso di crescita è aumentato rapidamente. In Europa i progressisti invocano spesso l’immigrazione incontrollata, ma gli stessi personaggi vorrebbero che i tibetani chiudessero le frontiere per conservarsi “etnicamente puri”. Anche a questo riguardo, però, vanno citate le parole di Yi-Fu Tuan, il quale testimonia che:
“Può darsi che [i tibetani] non abbiano la sensazione di una gran perdita culturale perché nella sola area che ai loro occhi è davvero importante, la religione, ben poco è mutato”.
Una seconda considerazione
Allontanandoci completamente dal libro del professor Tuan – che non tocca tale argomento – si può concludere con una seconda considerazione non legata al suo saggio.
Posti davanti alla convivenza ormai serena, e culturalmente molto fertile, sorta sull’altopiano, nel 2021, sembra che i progressisti si siano completamente dimenticati del Tibet: oggi la loro nuova arma per cercare di indebolire la Cina è la strumentalizzazione delle minoranze musulmane (in particolare gli uiguri, popolazione di lingua turcica) e la stigmatizzazione delle importanti operazioni contro il terrorismo islamico organizzate dal governo di Pechino.
Del Dalai Lama e della sua teocrazia ai progressisti non è mai importato niente e oggi non esitano a criticarlo per talune sue dichiarazioni, giudicate poco “politically correct” per i loro assurdi standard.
Per indicare i progressisti americani ed europei ossessionati dal politicamente corretto e da ideali astrusi, i cinesi hanno coniato persino un neologismo: Baizuo, cioè “sinistra bianca”.
A voler essere onesti, parlando dei tibetani, i progressisti dimenticano che i musulmani crearono problemi anche nel loro “romantico” Tibet. I seguaci di Maometto giunsero sull’altopiano dall’India, si insediarono nella regione e cercarono di sovvertire l’ordine sposando delle donne locali e obbligandole a convertirsi, una strategia già messa in atto anche altrove. Infine il governo di Lhasa intervenne con decisione, e vietò alle donne tibetane di convertirsi all’islam, ciononostante i mariti musulmani obbligarono comunque le mogli a indossare il velo e dissimularono i loro propositi bellicosi seguendo la pratica della taqiyya (mentire nell’interesse dell’islam). Anche Heinrich Harrer cita tali vicende, ma solo di sfuggita, sminuendo molto la gravità degli episodi registratisi in passato, al fine di consolidare l’immagine idilliaca del Tibet che voleva trasmettere ai suoi lettori.
Al di là della propaganda USA e UE, la Cina ha messo in atto solo una campagna di de-radicalizzazione dei musulmani e di lotta contro l’estremismo islamico – nemico dell’universalismo tradizionale cinese – giustificata da un rischio tangibile per la popolazione (sul territorio cinese convivono pacificamente ben 56 minoranze). Negli ultimi anni molti cittadini cinesi hanno abbandonato spontaneamente la religione musulmana e si sono perfettamente integrati nella vita delle città, superando la loro xenofobia e le antiche separazioni che si erano autoimposti. Grazie agli sforzi del governo cinese, le donne uigure dello Xinjiang e altre musulmane residenti in Cina stanno compiendo passi importanti verso la loro piena emancipazione e stanno apprezzando libertà che in precedenza gli erano del tutto sconosciute. Il governo cinese abbraccia il multiculturalismo proprio della storia del suo paese, ma, memore di quella stessa storia, combatte il terrorismo di matrice musulmana, le cui origini, in alcune regioni, sono tutt’altro che recenti.
Chiusa questa lunga digressione, tornando al libro Il cosmo e il focolare, l’approccio di Yi-Fu Tuan nei confronti dell’universalismo antico e moderno in Cina stimola il desiderio di studiarne la civiltà e può risultare molto utile per capire la realtà attuale di quella terra, nonché la sua grande tradizione.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Yi-Fu Tuan e una riflessione sul Tibet e sulla Cina
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