Zingari antichi e moderni. Lo scandalo della verità
- Autore: Raimondo Gatto
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2016
Nel romanzo Per chi suona la campana (1940), in cui trascrisse il suo ricordo della guerra civile spagnola, Ernest Hemingway (1899-1961) raccontò che:
"Gli zingari credono anche che l’orso è un fratello, perché ruba per divertimento".
L’americano inserì questo vago aneddoto nella narrazione senza citare alcuna fonte, tuttavia si sa invece che tra i Rom dei Balcani vi erano uomini dediti all’attività di “ursari”, ossia di addomesticatori di orsi. Costoro catturavano i cuccioli di questo animale selvatico e li addestravano facendoli saltare su una piastra arroventata.
Alla storia di quelli che oggi vengono chiamati i "popoli romaní" ha dedicato un libro il saggista Raimondo Gatto: Zingari antichi e moderni. Lo scandalo della verità, la cui seconda stampa, pubblicata dalle Edizioni Radio Spada, risale all’ottobre del 2019 (la prima edizione è del 2016).
Va fatta subito una premessa di carattere generale: il termine “zingaro”, benché troppo spesso usato come dispregiativo, non è scorretto. De André nel suo pezzo Khorakhané (1996) cantava "qualche rom si è fermato italiano/ come un rame a imbrunire sul muro", ma l’espressione “Rom”, “il popolo rom”, sta a indicare un preciso ceppo di popolazioni romaní. Dunque è preferibile utilizzare il più corretto Romaní, “popoli romaní”.
Sin dal XV secolo si diffuse in Europa la leggenda che gli “zingari” fossero di origine egiziana, ma si trattava di un’invenzione. In realtà i popoli romaní sono originari dell’India settentrionale da cui iniziarono a migrare probabilmente verso l’anno 1000.
"Uno studio recente sostiene che il primo afflusso dall’India, sia avvenuto per opera dei “Sinti”, tra il 1000 ed il 1027, che si stanziarono in Europa occidentale; il secondo dai “Rom”, arrivati nei Balcani nel 1362".
Sembra che siano state le guerre tra i Turchi e i Bizantini a spingere i Rom a migrare nuovamente tra il 1416 e il 1419. Giunte in Europa, le popolazioni romaní si presentarono come una comunità di pellegrini egiziani e ottennero subito dei salvacondotti, tra cui il più importante è quello concessogli da Sigismondo d’Ungheria (1368-1437) nel 1425, che ne fece consegnare una copia a ogni capotribù. Le orde utilizzarono ovunque lo stesso stratagemma e ostentando i loro permessi evitarono ogni pedaggio e ogni limitazione nei loro spostamenti. Nel 1422 giunsero nei Paesi Bassi ricevendo in dono grandi quantità di provviste alimentari e nello stesso anno arrivarono a Bologna, cominciando a creare i primi problemi agli abitanti di quelle zone. Tuttavia
"i permessi imperiali sottraevano gli zingari dalla giurisdizione dei vari Stati, delegando la punizione dei reati eventualmente commessi, all’autorità dei vari capi-banda".
Per circa mezzo secolo i gruppi di vagabondi poterono imperversare liberamente varcando i confini degli stati, ma poi i governi iniziarono a prendere i primi provvedimenti; tra il 1653 e il 1693 il Ducato di Milano emise cinquantasette grida contro i "Cingari".
A tale riguardo si possono anche ricordare le leggi adottate dai Veneziani per difendere i loro sudditi dai saccheggi dei "Cingani". Nel volume Leggi criminali del Serenissimo Dominio Veneto (una ristampa di documenti edita nel 1751) si può leggere ad esempio il provvedimento datato "1588. Adì 24. Settembre. In Pregadi.", con cui vennero irrigidite le direttive prese dal "Conseglio dì 21. Decembre 1549.; e 15. Luglio 1558", che impedivano il transito di ogni carovana di banditi: si ordinò di denunciare sempre la presenza dei "Cingani" e si vietò di concedergli qualsiasi tipo di passaporto.
"Se alcuno darà ricapito, ò aloggiarà li predetti Cingani incorrerà in pena di servire per Anni trè in Galera, alla Catena, ò altra pena, che parerà alli Rettori".
Era iniziata, comunque, la stagione del brigantaggio dei nomadi, che si protrasse sino al Settecento. Nelle tribù vi erano spesso individui dediti a varie forme di divinazione, ma la Chiesa non riconobbe in tali pratiche un’esplicita invocazione al maligno, li considerò solo dei comuni truffatori: la Santa Inquisizione non si occupò di loro e vennero giudicati dai tribunali civili. I primi studi sui popoli romaní risalgono al XIX secolo.
Nel suo saggio, Gatto spiega che tra le popolazioni romaní, storicamente, non è mai esistito un sentimento nazionale moderno, né un interesse erudito per la propria tradizione, né un qualche senso di appartenenza regionale o municipale, ma solo un forte tribalismo, che ha trovato espressione anche in rivalità e pregiudizi intestini (alcuni dei quali, invero, piuttosto recenti), che dividono e oppongono questi gruppi.
Nel 1937, a Varsavia, davanti a 15000 persone, Janusz I fu incoronato “re degli zingari”. Questo strano personaggio (probabilmente imitando i sionisti) ardì persino chiedere a Benito Mussolini di consegnargli una striscia di terra al confine tra la Somalia e l’Abissinia per dare una patria al suo popolo. Come si può facilmente immaginare, la proposta del sovrano improvvisato non fu minimamente presa in considerazione e i suoi ideali di stampo nazionalista ebbero scarso seguito.
È tristemente noto che il regime nazista organizzò anche il genocidio della popolazione romaní. La "questione degli zingari e degli asociali" fu affidata al medico e psicologo Robert Ritter (1901-1951), uno tra i principali sostenitori delle disumane "teorie sulla razza", che nel 1936 aveva fondato il Centro di ricerche d’igiene razziale e biologia della popolazione. L’autore del libro evidenzia l’ambiguità mostrata dalla Germania di Hitler nei confronti dei popoli romaní, ritenuti ariani, poiché provenienti dall’India, ma in gran parte “degenerati” e quindi da eliminare.
Percorrendo il cammino storico delle genti romaní dalle origini sino al presente, Raimondo Gatto osserva che già le opere del loro ingegno sono "una manifestazione di incivilimento che sconfessa ogni tesi razzista":
"Nella Transilvania gli zingari Rudari (i lavatori d’oro dei fiumi) erano tenuti in alta considerazione; una vera corporazione con diritti e privilegi. In generale, tutti gli zingari, che nelle fiere e nei mercati, esercitavano un mestiere di pubblica utilità, furono sempre rispettati, una sconfessione di chi vuole il popolo ostile pregiudizialmente agli zingari".
Secondo Gatto l’idea che
"siano costretti a rubare, perché impediti nell’esercizio delle loro attività artigianali dai residenti, non trova conferma ed è smentita, in modo categorico, dagli studi più documentati".
Lo scrittore osserva che l’adesione delle tribù romaní al Cristianesimo o alla religione musulmana fu superficiale: esse scelsero questa strategia per farsi accettare dai popoli autoctoni delle diverse regioni in cui si stanziarono nel tempo, ma mantennero inalterate le loro credenze (che si concentrano soprattutto sul rapporto con i morti), in cui sembrerebbero riconoscibili almeno alcuni tratti dell’orizzonte culturale da cui questi indoeuropei provengono: quello induista.
Tramite libri e giornali, l’autore documenta quanto oggi presso i gruppi romaní sia diffuso il disagio sociale: la criminalità ha costituito un suo sistema (anti)valoriale, paragonabile a quello mafioso, in cui è accettato il furto ai danni degli estranei. Il parallelismo non è errato: "Il 21 giugno 2003 tutti i quotidiani pubblicavano con enfasi i risultati dell’Operazione Tulipano, con l’arresto di due coniugi appartenenti al celebre clan dei Casamonica (di origine abruzzese), spesso, infatti, "le attività criminali che vedono coinvolte le famiglie nomadi del Centro Italia, si sviluppano all’interno dei clan di zingari sedentarizzati".
Inoltre sono segnalati frequentemente numerosi disagi relativi alla sfera della vita familiare di alcuni gruppi, in cui le mogli e i figli sono tuttora ridotti a una condizione servile, ma purtroppo non sempre le associazioni per i diritti delle donne e dei minori mostrano la giusta attenzione a situazioni simili. È inutile nascondere la testa sotto la sabbia, anche in tempi recenti i titoli dei giornali sono stati preoccupanti: "Non vuole essere madre e ladra sinti. Si ribella e denuncia ma ora resta senza tutele", oppure "Mafia rom, altro che siciliani".
Il libro di Raimondo Gatto è forse fin troppo sintetico per coprire tutto il quadro storico-antropologico che cerca di comporre, si avverte innanzitutto la mancanza di una sezione introduttiva dedicata alla corretta terminologia da adottare, che avrebbe dovuto avere una parte importante all’inizio del volume. Riflettere sull’uso dei vocaboli è fondamentale. Inoltre è trascurato completamente il tema dell’integrazione e degli “integrati”, che vivono nella perfetta legalità e nel rispetto dello Stato di cui sono cittadini, che all’interno del saggio avrebbe dovuto occupare un intero capitolo di ampio respiro; insomma, il testo presenta dei difetti ed è, quantomeno, incompleto.
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