Giacomo Leopardi compose il canto All’Italia a soli vent’anni, nel settembre 1818. Si racconta che l’ispirazione gli fosse venuta in seguito a una discussione appassionata con l’amico Pietro Giordani.
La lirica è infatti percorsa da temi patriottici, fortemente legati agli ideali del Romanticismo che inneggiavano alla liberazione dallo straniero.
Con uno stile solenne e un tono appassionato il giovane Leopardi ricordava il passato glorioso che si contrapponeva ai tempi a lui contemporanei, caratterizzati da un presente infausto che vedeva l’Italia sottomessa e ferita.
La poesia fu scritta proprio all’indomani del Congresso di Vienna, nell’epoca della Restaurazione mentre si diffondeva un sentimento nuovo: il nazionalismo.
Il componimento sarebbe stato in seguito inserito, nel 1824, come testo di apertura dei Canzoni.
Scopriamone testo, parafrasi e analisi strofa per strofa.
All’Italia di Giacomo Leopardi: testo e analisi
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Nella prima strofa Leopardi si rivolge direttamente alla patria lamentando di non poter più vedere in lei la gloria che aveva nei tempi antichi. Un tempo coronata dall’alloro e trionfi, oggi è diventata inerme. Il poeta paragona l’Italia a una donna bellissima fatta prigioniera. Ora, ferita, mostra la fronte e il petto nudo, inerme dinnanzi al nemico.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.
Nella seconda strofa il poeta si concentra sulla sofferenza patita dall’Italia, fatta prigioniera, che piange e si dispera. Interroga la donna in una serie di domande retoriche chiedendole chi l’abbia ridotta in quel modo, come sia stata ferita. Leopardi si domanda chi sia il responsabile dell’attuale decadenza dell’Italia. Infine, in uno slancio patriottico, chiede di poter essere lui stesso il difensore della propria patria. Come un condottiero, novello Don Chiosciotte, chiede che gli siano date le armi per combattere e incita tutti gli italiani a farlo con lui. Spera che il fuoco che gli si è acceso nel petto si propaghi all’intero popolo.
Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L’itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Ancora nella terza strofa Leopardi interroga la donna ferita, personificazione dell’Italia. Proprio come se fosse una donna e una madre le pone la straziante domanda “Dove sono i tuoi figli?”.
È il suo popolo infatti, afferma il poeta, ad averla abbandonata. La migliore gioventù italiana è stata mandata a combattere guerre inutili in terre straniere. Mentre l’Italia, madre amorosa, li attende invano. La gioventù patisce e i soldati muoiono lontano dalla terra natale.
Il poeta infine piange con viva compassione quei soldati feriti da spada nemica e morti lontano dalla terra madre, cui non possono neppure restituire il proprio corpo morente, la vita che a loro è stata data.
Oh venturose e care e benedette
L’antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch’alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprìr le invitte schiere
De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d’Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l’etra e la marina e il suolo.
Leopardi dunque rimpiange il glorioso passato, le epoche in cui i soldati non vedevano l’ora di combattere per la propria patria a costo della vita. Ricorda in particolare la battaglia delle Termopili, in Tessaglia nel 480 a. C., in cui gli Spartani si sacrificarono valorosamente per sconfiggere l’avanzata persiana. Qui Leopardi fa riferimento al passo narrato dal poeta greco Simonide di Ceo che con la sua lira era solito cantare l’eroica battaglia e il coraggio degli Spartani.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch’offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch’al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L’ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
Ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
Ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l’aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Leopardi cede la parola al poeta Simonide di Ceo, in cui si identifica. Come il poeta greco piange di fronte al sacrificio dei soldati e non è più in grado di cantarlo con la propria lira. Quei giovani Spartani andarono incontro alla morte a passo di danza, come se il momento fatale fosse l’ora più lieta della loro vita. Morirono sul terreno polveroso senza baci né il pianto delle spose a consolarli mentre esalavano l’ultimo respiro.
Ma non senza de’ Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra’ primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve’ come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d’infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Con impeto tuttavia Leopardi ricorda che gli Spartani non morirono invano, essi avevano inflitto ai nemici persiani un tremendo dolore e un’orrenda pena. Erano stati come leoni che avevano assaltato una mandria di tori, azzannandoli con ferocia. Gli spartani avevano combattuto con onore, sino all’ultimo respiro, con l’animo inondato di coraggio. Dopo aver descritto l’ardua battaglia il poeta si augura che per sempre si celebri, attraverso canti e scritture, il prodigioso eroismo umano. Nelle parole di Simonide i giovani Spartani sono per sempre “Beatissimi voi”. Il loro nome sarà dunque immortale grazie alla forza della poesia.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell’imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall’uno all’altro polo.
Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest’alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch’io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.
Nella strofa conclusiva il poeta ribadisce che la tomba dei soldati spartani è sacra come un altare votivo. Il loro sacrificio infatti sarà per sempre onorato e glorificato dalle nuove generazioni. Le madri porteranno i loro figli a piangere su quella tomba e a ricordare il sacrificio di tanti giovani eroi.
Infine Leopardi, identificandosi ancora con Simonide di Ceo, chiude con una riflessione introspettiva. Si domanda se il destino del poeta è diverso da quello dell’eroe caduto in guerra. E se così non fosse, se egli non potesse morire versando sangue per la patria, si augura che la sua modesta fama di letterato possa durare tanto quanto durerà la fama dei caduti in nome della patria.
La morte in battaglia viene vista dal giovane Leopardi come un lodevole sacrificio, meritevole di essere ricordato ed eternato attraverso la poesia.
Nella lirica All’Italia Giacomo Leopardi trasfonde tutto il fervore patriottico che anima il suo cuore giovane e ardente.
Trasfigura la sua penna di letterato nella spada insanguinata di un guerriero.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “All’Italia”: parafrasi e spiegazione del canto di Giacomo Leopardi
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