“All’ombra de’ cipressi”: proprio così comincia il carme “Dei Sepolcri” composto da Ugo Foscolo verso la fine 1806 o verso la primavera del 1807. Sono ben i 295 versi composti in seguito alla conversazione avuta con Ippolito Pindemonte nel salotto veneziano di Isabella Teotochi Albrizzi in merito a un problema all’epoca molto sentito, ovvero la sepoltura dei morti. L’editto di Saint Cloud del 1804 emanato in Francia e poi reso effettivo anche in territorio italiano nel 1806, infatti, aveva imposto la tumulazione fuori dai centri abitati per ragioni igieniche; in precedenza le tombe erano all’interno delle chiese. Per ragioni democratiche, inoltre, era anche stato stabilito che le lapidi dei cittadini fossero tutte identiche per tipo e misura. Scopriamo la riflessione che questo contesto storico e il dibattito con gli intellettuali del tempo ha scaturito in Foscolo guardando al testo del carme, la parafrasi della prima parte di testo e l’analisi del componimento.
Il testo Dei Sepolcri di Ugo Foscolo
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Nè da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa,
Nè più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell’Amore,
Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose l’obblio nella sua notte;
E una forza operosa le affatica
Di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
E l’estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sè il mortale
Invidierà l’illusion che spento
Pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani; e spesso
Per lei si vive con l’amico estinto
E l’estinto con noi, se pia la terra
Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo
Porgendo, sacre le reliquie renda
Dall’insultar de’ nembi e dal profano
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori adorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
Fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
O ricovrarsi sotto le grandi ale
Del perdono d’lddio: ma la sua polve
Lascia alle ortiche di deserta gleba
Ove nè donna innamorata preghi,
Nè passeggier solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
Fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
Contende. E senza tomba giace il tuo
Sacerdote, o Talia, che a te cantando
Nel suo povero tetto educò un lauro
Con lungo amore, e t’appendea corone;
E tu gli ornavi del tuo riso i canti
Che il lombardo pungean Sardanapalo,
Cui solo è dolce il muggito de’ buoi
Che dagli antri abduani e dal Ticino
Lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
Spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
Fra queste piante ov’io siedo e sospiro
Il mio tetto materno. E tu venivi
E sorridevi a lui sotto quel tiglio
Ch’or con dimesse frondi va fremendo
Perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio,
Cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
Vagolando, ove dorma il sacro capo
Del tuo Parini? A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D’evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l’ossa
Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse e famelica ululando;
E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
L’ùpupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l’immonda accusar col luttuoso
Singulto i rai di che son pie le stelle
Alle obblîate sepolture. Indarno
Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
Dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
Non sorge fiore ove non sia d’umane
Lodi onorato e d’amoroso pianto:
Dal dì che nozze e tribunali ed are
Dier alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura
Con veci eterne a’ sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi
De’ domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento:
Religïon che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
Fean pavimento; nè agl’incensi avvolto
De’ cadaveri il lezzo i supplicanti
Contaminò; nè le città fur meste
D’effigïati scheletri: le madri
Balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
Nude le braccia su l’amato capo
Del lor caro lattante, onde nol desti
Il gemer lungo di persona morta
Chiedente la venal prece agli eredi
Dal santuario. Ma cipressi e cedri
Di puri effluvi i zefiri impregnando
Perenne verde protendean su l’urne
Per memoria perenne; e prezïosi
Vasi accogliean le lagrime votive.
Rapìan gli amici una favilla al Sole
A illuminar la sotterranea notte,
Perchè gli occhi dell’uom cercan morendo
Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte o a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
De’ suburbani avelli alle britanne
Vergini, dove le conduce amore
Della perduta madre, ove clementi
Pregaro i Geni del ritorno al prode
Che tronca fe’ la trîonfata nave
Del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
E sien ministri al vivere civile
L’opulenza e il tremore, inutil pompa
E inaugurate immagini dell’Orco
Sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
Decoro e mente al bello Italo regno,
Nelle adulate reggie ha sepoltura
Già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
Morte apparecchi riposato albergo,
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle vendette, e l’amistà raccolga
Non di tesori eredità, ma caldi
Sensi e di liberal carme l’esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande
Che, temprando lo scettro a’ regnatori,
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l’arca di colui che nuovo Olimpo
Alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
Sotto l’etereo padiglion rotarsi
Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,
Onde all’Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmamento:
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe’ lavacri
Che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti, e le convalli
Popolate di case e d’oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi:
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
E tu i cari parenti e l’idïoma
Dèsti a quel dolce di Calliope labbro,
Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste;
Ma più beata che in un tempio accolte
Serbi l’Itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti,
Armi e sostanze t’invadeano, ed are
E patria, e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
Intelletti rifulga ed all’Italia,
Quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
Irato a’ patrii Numi; errava muto
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desîoso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l’austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
Fremono amor di patria. Ah sì! da quella
Religïosa pace un Nume parla:
E nutrìa contro a’ Persi in Maratona
Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
La virtù greca e l’ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
Vedea per l’ampia oscurità scintille
Balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche
D’armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
Silenzi si spandea lungo ne’ campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube
E un incalzar di cavalli accorrenti
Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte:
Nè senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
Eterno splende a’ peregrini un loco
Eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
Onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta
Talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
Che lei dalle vitali aure del giorno
Chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
Mandò il voto supremo: E se diceva,
A te fur care le mie chiome e il viso
E le dolci vigilie, e non mi assente
Premio miglior la volontà de’ fati,
La morta amica almen guarda dal cielo
Onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
E fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
Da’ lor mariti l’imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
Le fea parlar di Troja il dì mortale,
Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepoti, e l’amoroso
Apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
Ove al Tidide e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! le mura, opra di Febo,
Sotto le lor reliquie fumeranno;
Ma i Penati di Troja avranno stanza
In queste tombe; chè de’ Numi è dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
Di vedovili lagrime innaffiati.
Proteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l’altare,
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello l’ultimo trofeo
Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
Per un riassunto del testo
Dei sepolcri di Ugo Foscolo: la parafrasi
Il sonno eterno è forse meno doloroso all’ombra dei cipressi o dentro un’urna confortata dal pianto dei propri cari? Quando non potrò più vedere il sole fecondare la terra per questa bella popolazione di piante e di animali, e quando, davanti a me, non danzeranno più le ore future ricche di promesse, né sentirò più la tua poesia, dolce amico, con l’armonica malinconia che la anima, e lo spirito delle vergini muse della poesia e dell’Amore non parleranno più al mio cuore, solo conforto per la mia vita di esule, quale consolazione sarà per i miei giorni perduti una tomba che distingua le mie ossa dalle infinite altre ossa che la morte sparge sia per terra che per mare?
Ed è ben vero, Pindemonte! Persino la speranza, ultima dea, arriva ad abbandonare i sepolcri; e l’oblio avvolge tutte le cose nella sua notte eterna; e un’operosa forza le trasforma continuamente; e il tempo travolge l’uomo, i suoi sepolcri, i suoi resti e tutto ciò che rimane di terra e cielo.
Perché, poi, l’uomo si dovrebbe privare prima del tempo dell’illusione che, una volta morto, lo trattiene ancora sulle soglie dell’oltretomba? Non continua, forse, a vivere anche sottoterra, quando l’armonia del giorno gli sarà impercettibile, se potrà risvegliarla, attraverso la memoria, nella mente dei suoi cari?
Questa corrispondenza di sentimenti amorosi è divina, un dono divino concesso agli uomini; e, spesso, grazie a questa dote si può continuare a vivere con un amico defunto e lui vive con noi, purché la terra pietosa che lo accolse neonato e che lo ha nutrito, porgendogli l’ultimo asilo nel suo grembo materno, renda inviolabili quelle reliquie dall’oltraggio degli agenti atmosferici e dal piede profanatore degli uomini, e una lapide conservi il nome, e un albero amico e profumato di fiori consoli
quelle ceneri con le carezze delle sue ombre.
Solo chi muore senza lasciare legami affettivi ha poca gioia nella tomba, e se guarda dopo la propria sepoltura non vede altro che il suo spirito vagare nel dolore dei luoghi infernali o rifugiarsi sotto le grandi ali del perdono di Dio: ma lascia le sue ceneri alle ortiche di una terra deserta, dove non pregherà alcuna donna innamorata, né un passante solitario sentirà il sospiro che la natura manda dalla tomba.
Eppure una nuova legge oggi impone che i sepolcri siano collocate lontane dagli sguardi pietosi, e toglie la fama ai morti. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia [musa della poesia satirica: il suo sacerdote è Parini], che poetando coltivò per te, con amore di lunga durata, un alloro, e a te appese molte corone [ti consacrò le sue opere]; e tu gli ornavi con il tuo sorriso le sue poesie che criticavano l’aristocratico lombardo, a cui è gradito solo il muggito dei buoi che dalle rive dell’Adda e dal Ticino lo riempiono di ozi e vivande. O bella Musa, dove sei? Non sento il profumo dell’ambrosia, indizio della tua presenza, tra queste piante dove sono seduto e penso con tristezza alla mia casa materna. Un tempo però venivi e gli [a Parini] sorridevi sotto quel tiglio che ora freme con fronde tristi, perché non può più coprire l’urna del vecchio, che in passato aveva protetto con ombra e tranquillità.
Forse tu, o Musa, cerchi vagando fra le tombe umili la tomba in cui riposa il tuo Parini? La sua città [Milano] immorale, amante dei cantanti castrati, non pose alcuna ombra in suo onore, né alcuna lapide, né un’iscrizione; e forse le sue ossa sono ora insanguinate dalla testa mozzata di un ladro, che scontò con il patibolo i propri delitti. Senti raspare tra le macerie e le sterpi la cagna derelitta, che vaga sulle fosse e ulula famelica; e l’upupa immonda uscire dal teschio, al termine della notte, e svolazzare per le croci sparse per il camposanto, e con il suo canto luttuoso rimproverare i raggi pietosi che le stelle donano alle sepolture dimenticate. Inutilmente, o Dea, preghi che perché la notte squallida faccia cadere rugiada sul tuo poeta. Ahi! Non sorge alcun fiore sui morti che non siano onorati dalle lodi umane e dal pianto affettuoso.
Dal giorno in cui nozze, leggi e religioni consentirono agli uomini, ancora allo stato bestiale, di avere pietà di se stessi e degli altri, i vivi iniziarono a sottrarre all’aria malvagia e agli animali i miseri resti che la natura con metamorfosi continue destina alle forme. Le tombe e gli altari erano una testimonianza per le glorie e per i figli; da esse uscivano i responsi delle anime dei defunti, ormai divine [i Lari], e il giuramento fatto sulla polvere dei propri antenati fu considerato sacro e temuto: e questo culto per lungo tempo fu tramandato dalle virtù civili e dalla pietà per i congiunti.
Non sempre le lapidi sepolcrali fecero da pavimento alle chiese; né il puzzo dei cadaveri mascherato dall’incenso contaminò i fedeli in preghiera; né le città furono rattristate dai disegni di scheletri: le madri si svegliano di soprassalto, e protendono le braccia nude sul capo amato del loro caro figlio in fasce perché non lo svegli il lungo gemere dei morti che chiedono dal santuario agli eredi messe a pagamento. Ma i cedri e i cipressi, impregnando l’aria di effluvi puri, protendevano le loro fronde perennemente verdi sulle urne, per una memoria perenne, e vasi preziosi raccoglievano le lacrime in voto.
Gli amici rubavano dal Sole una scintilla per illuminare la notte sotterranea, perché gli occhi dell’uomo cercano morendo il Sole; e tutti i petti mandano il loro ultimo sospiro alla luce splendente. Le fondane versando acque purificatrici facevano crescere amaranti e viole sul tumulo mortuario; e chi si sedeva a versare latte in segno di offerta e a reccontare le sue pene ai cari defunti sentiva intorno a sé una fragranza come l’aria dei beati Elisi.
Follia benefica che rende cari i giardini dei cimiteri attorno alle città alle giovani inglesi, condotte lì dall’amore della marte persa, dove pregarono i Geni [Numi tutelari della patria] di concedere il ritorno al valoroso [Nelson] che troncò l’albero maestro della nave vinta e in quel legno fece scavare la sua bara.
Ma dove è spento il desiderio di implese gloriose e la ricchezza e la pavidità dominano la vita civile, cippi e monumenti di marmo appaiono come pomposità inutili e malauguranti immagini dell’oltretomba.
Già il popolo intellettuale, ricco e nobile, ornamento e guida del bel regno italico, hanno la loro tomba ancora vivi nelle reggie in cui risuona l’adulazione, e sua unica lode sono gli stemmi. A noi la morte prepari una dimora quieta, dove la sorte cessi finalmente con le sue vendette, e l’amicizia raccolga un’eredità non fatta di tesori ma di caldi affetti, e l’esempio di una poesia ispiratrice di libertà.
Le tombe dei grandi uomini ispirano l’animo a nobili imprese, o Pindemonte; e rendono bella e santa la terra che le accoglie allo straniero. Io, quando vidi il monumento dove riposa il corpo di quel grande [Machiavelli] che, insegnando ai principi l’arte del governo, lo ha spogliato di gloria e ha svelato alle persone che lacrime e che sangue richieda; e la tomba di colui [Michelangelo] che a Roma innalzò agli dei un nuovo Olimpo [la cupola di San Pietro]; e di chi [Galileo]vide sotto la volta celeste ruotare i pianeti, e il Sole irradiarli da fermo, sgombrando per primo le vie del firmamento all’inglese [Netwon] che tanto ingegno vi applicò - ti proclamai a gran voce beata per le felici arie piene di vita e per le acque che l’Appennino versa a te! La Luna lieta della tua aria veste di luce limpidissima i tuoi colli, festanti per la vendemmia, e le valli intorno, ricche di case e di oliveti, mandano al cielo il profumo di mille fiori: e tu prima, Firenze, ascoltavi il canto che placò l’ira del Ghibellino esule [Dane], e tu desti i natali e la lingua a quel dolce labbro di Calliope [Petrarca] che, adornando di un velo candido Amore, nudo in Grecia e a Roma, lo pose in grembo alla Venere celeste; ma sei ancora più beata perché serbi le glorie italiche raccolte in una chiesa, forse le uniche da quando le Alpi indifese e l’onnipotenza dell’umana sorte alterna ti sottrassero le armi e le ricchezze, gli altari e la patria, e, tranne la memoria, tutto il resto. Qualunque speranza di riscatto splenda nelle menti più coraggiose e in tutta Italia, non potrà che partire da qui. A questi marmi venne spesso Vittorio [Alfieri] a trarre ispirazione. In rotta con gli dei, errava muto dove l’Arno è più deserto, ammirando desideroso i campi e il cielo; e poiché di nessun incontro gli leniva l’affanno, cupo, si fermava qui; e aveva sul volto il pallore della morte e della speranza. Con questi grandi abita in eterno: e le sue ossa fremono ancora per amor di patria. Ah sì! Un dio parla da quella pace sacra: ispirava la virtù e l’ira dei greci contro i persiani a Maratona, dove Atene consacrò le tombe ai suoi prodi caduti. Il navigatore che veleggiò il mare sotto l’Eubea vide attraverso l’ampia oscurità scintillare gli elmi e le spade che si scontravano, fumare le pire di vapore di fuoco, i fantasmi dei guerrieri alla ricerca del combattimento brillare nelle loro armi di metallo; e nell’orrore dei silenzi notturni si spargeva nei campi un lungo frastuono di eserciti e un suono di trombe e l’incalzare dei cavalli che corrono scalpitando sugli elmi dei moribondi, e pianto, e inni, e il canto delle Parche.
Felice te, Ippolito, che in gioventù percorrevi l’ampio regno dei venti [la Grecia]! E se il pilota girò il timone oltre le isole egee, sicuramente sentisti risuonare le spiagge dell’Ellesponto delle imprese antiche, e la marea portare mugghiando alle coste retee le armi di Achille sopra le ossa di Aiace: ai generosi la morte è giusta dispensatrice di glorie; né l’astuzia né il favore dei re conservava le spoglie difficili a Ulisse, poiché l’onda incitata dagli dei dell’oltretomba le sottrasse alla nave errabonda.
E me, che i tempi e il desiderio d’onore fanno vagare fuggitivo per diversi popoli, me le Muse, animatrici del pensiero mortale, chiamino a evocare gli eroi. Le Muse siedono custodi dei sepolcri, e quando il tempo con le sue fredde ali vi spazza persino le rovine, allietano i deserti con il loro canto, e l’armonia vince di mille secoli il silenzio.
E oggi nella Troade deserta splende per gli stranieri un luogo eterno a causa della ninfa [Elettra] a cui fu sposo Giove, a cui diede il figlio dardano, da cui nacquero Troia e Assàraco e i cinquanta letti nuziali [dei figli di Priamo] e il regno della Gens Iulia [i Romani]. E quando Elettra udì la Parca chiamarla ai campi elisi dall’aria vitale del giorno, a Giova mandò la sua ultima preghiera, dicendo: Se ti furono cari i miei capelli e il viso e le dolci albe trascorse insieme, e la volontà del fato non mi consente un premio migliore, guarda almeno dal cielo la tua cara ormai morta, cosicché della tua Elettra resti per sempre il ricordo. Così dicendo morì. E ne pianse il re dell’Olimpo: e inclinando il capo immortale faceva piovere dai suoi capelli ambrosia sulla ninfa, rendendo sacro quel corpo e la sua tomba. Qui fu sepolto Erittonio, e qui riposano i resti del giusto Ilo; qui le donne iliache scioglievano le loro chiome, scongiurando invano ai mariti di sfuggire al loro fato imminente; qui Cassandra arrivò cassandra il giorno in cui Apollo nel suo petto le fece predire l’ultimo giorno di Troia; e ai morti cantò un canto amoroso, guidando i nipoti e insegnando quel lamento amoroso ai giovinetti. E diceva sospirando: O se mai il cielo vi consentirà di tornare dalla Grecia dove nutrirete i cavalli di Diomede e del figlio di Laerte, cercherete invano la vostra patria. Le mura, opera di Apollo, fumeranno sotto le loro rovine. Ma i Penati di Troia avranno dimora in queste tombe; perché è dono dei Numi conservare persino nella miseria la loro fama. E voi, palme e cipressi che piantano le nuore di Priamo, che presto crescerete innaffiati dalle lacrime delle vedove, proteggete i miei padri: e chi piamente allontanerà la scure dalle fronte devote soffrirà dimeno per i lutti dei suoi parenti e toccherà l’altare come un santo. Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete un cieco mendicante errare sotto le vostre ombre antichissime, e brancolando penetrare nei loculi a tentoni, e abbracciare le tombe e interrogarle. Piangeranno gli antri segreti, e la tomba racconterà di Troia rasa due volte al suolo e due volte risorta splendidamente sulle vie silenziosa per rendere ancora più bella la vittoria finale ai figli di Peleo mandati dal fato. Il sacro vate [Omero], placando quelle anime afflitte con il suo canto, renderà eterni i principi Achei in tutto il mondo. E tu, Ettore, sarai onorato dal pianto ovunque sarà santo e degno di lacrime il sangue versato per la patria e finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane.
Analisi della poesia Dei Sepolcri
La ragione che spinge Foscolo a comporre questo componimento, quindi, va ricercata nella società di quel tempo e nell’editto che tutto aveva cambiato rispetto a ciò che era in precedenza nell’ambito della sepoltura dei morti. I Sepolcri sono versi composti proprio per riprendere quella discussione che coinvolgeva, all’epoca, tutti i maggiori intellettuali.
In questo componimento emergono parecchi spunti e motivi già evidenziati dall’autore nell’Ortis e in sonetti come A Zacinto o In morte del fratello Giovanni, solamente che vengono arricchiti, riformulati e ulteriormente sviluppati.
Nella poesia Foscolo utilizza continuamente la figura dell’enjambement allo scopo di dilatare a dismisura la lunghezza di ogni verso oltre a curare attentamente la disposizione degli accenti. Se i 295 endecasillabi sciolti partono con un intento di militanza sociale e culturale, ben presto la questione viene superata a favore di una profonda meditazione sulla tomba e sulla funzione consolatoria che essa ha per chi rimane.
La riflessione che Foscolo compie si basa sul fatto che le tombe, che sono sicuramente inutili per i morti, sono invece preziosissime agli occhi dei vivi poiché danno la speranza di potere, una volta morti, sopravvivere nei ricordi dei proprio cari tramite questo collegamento fisico. Oltre a questo, in riferimento al fatto che le tombe avrebbero dovuto essere tutte di egual misura e aspetto, Foscolo pone l’accento sulle tombe degli uomini illustri; esse, secondo lui esercitano su tutto il popolo una funzione educativa e di ispirazione per compiere nuove imprese. Oltre la parte iniziale di questo carme Foscolo continua a sostenere sempre con maggiore forza quanto le tombe siano fondamentali non tanto per colui che, ormai, se ne è andato ma per mantenere vivo il legame che i vivi sentono con questa persona.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: All’ombra dei cipressi: testo, parafrasi e analisi della poesia “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo
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