Il passero solitario è una delle più famose poesie di Giacomo Leopardi. Sebbene persista un ampio dibattito sulla sua datazione, l’opzione più accreditata è che la composizione dell’opera sia collocabile tra il 1829 e il 1830; la poesia è stata pubblicata nel 1835 nell’edizione napoletana dei Canti. Vediamo brevemente di cosa parla il componimento, per poi procedere con la parafrasi de Il passero solitario e l’analisi del testo.
Prima di procedere, è fondamentale fare però una piccola precisazione: quel "solitario" che compare nel titolo della poesia non è un semplice attributo di passero, ma indica una vera e propria specie; il passero solitario, inoltre, non cinguetta, come il passero comune, ma canta.
Leopardi gioca con la solitarietà e la solitudine a partire dal nome della specie, creando un parallelismo tra sé e l’uccello. Tra l’uomo e l’animale esiste però una differenza fondamentale: quel passero è solitario per natura (e non gregario, come il passero comune), non percepisce il suo dolore e non può provare che felicità (lo stretto legame tra canto, volo e felicità è indagato dal poeta anche ne L’elogio degli uccelli, una delle Operette morali); Leopardi, invece, potrà solamente rimpiangere, una volta anziano, la sua gioventù deserta.
Testo della poesia Il passero solitario
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Parafrasi
Dalla cima della torre antica, passero solitario, continui a cantare rivolto alla campagna fino a che la giornata non termina; e il suono del tuo canto si diffonde attraverso questa vallata.
Tutto intorno brilla nell’aria la primavera e i campi sono nel pieno del loro rigoglio, al punto tale che ad ammirarla il cuore si commuove. Senti i greggi belare e le mandrie di buoi muggire; gli altri uccelli sono felici e insieme gareggiano facendo mille giri nel cielo libero, festeggiando il periodo migliore della loro vita: invece tu, pensieroso e in disparte, osservi tutto ciò; non ti interessa dei compagni, dei voli, dell’allegria ed eviti i divertimenti; canti, e proprio così passi la migliore epoca dell’anno e della tua vita.
Ahimè, quanto è simile al mio il tuo modo di vivere! Io non cerco, e nemmeno so come sia possibile, il divertimento e il piacere, i dolci compagni della gioventù, né te, amore, fratello della giovinezza e amaro rimpianto nei giorni dell’età matura; anzi, quasi scappo lontano da tutti loro; e quasi solitario ed estraneo a questo luogo in cui sono nato passo la giovinezza.
Solitamente al nostro paese si festeggia questo giorno, che ormai lascia il posto alla sera. Attraverso il cielo sereno senti un suono di campana, spesso senti uno sparo di armi da fuoco a salve, che rimbomba lontano, da casa a casa.
I giovani del luogo, vestiti tutti a festa, lasciano le case e si spargono per le strade; guardano e sono guardati, e si rallegrano nei loro cuori. Io, solitario, uscendo verso questa parte lontana di campagna, rinvio ad altri momenti i piaceri e i giochi; e intanto il sole, che dopo una giornata serena sparisce nascondendosi dietro monti lontani, ferisce il mio sguardo che si estende nell’aria soleggiata, e pare avvertirmi che la giovinezza felice sta andando via.
Tu, solitario uccellino, quando sarai giunto verso la fine della vita che il destino ti darà, sicuramente non ti pentirai del tuo modo di vivere; perché ogni tuo desiderio è frutto di una disposizione naturale.
Invece a me, se non riuscirò a evitare l’odiosa soglia della vecchiaia, quando questi occhi rimarranno insensibili agli altrui sentimenti e il mondo sembrerà loro vuoto, e il giorno futuro più noioso e più cupo di quello attuale, cosa ne sembrerà di questo desiderio? Che cosa penserò di questi miei anni? E cosa di me stesso?
Ahimè, mi pentirò e spesso volgerò il mio sguardo indietro, senza però avere possibilità di consolazione.
Analisi del testo de Il passero solitario
Un primo appunto leopardiano legato a un "passero solitario" compare nel 1819, ma sono molte le ragioni per ritenere che questa poesia sia stata composta invece solo dieci anni dopo, nel 1829.
Nell’edizione napoletana dei Canti (1835), la prima in cui la poesia fa la sua comparsa a stampa, Il passero solitario occupa l’undicesimo posto, come prologo agli Idilli e subito prima de L’infinito.
L’intera poesia si basa su una similitudine tra il comportamento del passero e il comportamento del poeta. Così come fa il passero solitario, anche Leopardi trascorre solitario la primavera, il periodo che dovrebbe essere il più bello e felice per tutti. C’è però una differenza tra i due: se il passero lo fa per sua natura e vive felicemente la sua condizione, Leopardi si sente incompreso ed estraneo al suo stesso luogo natale, privato della giovinezza. Il passero, quindi, non avrà rimpianti per questo modo di aver vissuto, essendo il suo comportamento tipico della sua natura; il poeta, per contro, sente che una volta arrivato alla vecchiaia avrà un grosso rimpianto da sopportare a causa di tutte le gioie di cui non avrà goduto.
La struttura della poesia è simmetrica: la prima strofa è incentrata sul passero e sulle sue abitudini di vita, la seconda sul poeta, che vive una condizione simile a quella dell’uccello. La terza è dedicata a un confronto tra i due, che mette in contrapposizione la vecchiaia che entrambi vivranno: quella del passero sarà solo la parte finale della vita che il destino gli avrà concesso, quella del poeta sarà costellata di rimpianti e pentimenti per gli anni della giovinezza sprecati.
La lirica è pregna delle più profonde contraddizioni vissute dal poeta e vede una serie di temi cardine della sua poetica contrapposti: vecchiaia e giovinezza, dolore e rifiuto per la vita e amore per l’esistenza, pessimismo e ottimismo, folla e solitudine.
Tutti questi duelli vengono inseriti nella cornice di una riflessione sulla lacerazione tra gioia di vivere e angoscia data dalla riflessione sulla realtà. La vecchiaia è vissuta come una “detestata soglia” e il rimpianto della giovinezza (il “tempo migliore”) è già in agguato, ancor prima che questa sia effettivamente passata. In quanto miglior tempo della vita, inoltre, e come da tradizione, la giovinezza è qui associata alla primavera.
Oltre al rimpianto, Leopardi parla anche della nostalgia che proverà quando il tempo della giovinezza sarà ormai perduto, per una vita ricca di emozioni lasciate andare e non vissute.
Oltre a richiamare, per struttura e argomentazione, A Silvia, la poesia è dunque una sorta di autoritratto di Leopardi e della sua giovinezza; egli non attribuisce la sua infelicità alla società che lo circonda o alla natura, ma è ben consapevole che tutto deriva dalla sua insicurezza e dal suo senso di impotenza, peculiarità che gli impediscono di creare un legame con gli altri e, di conseguenza, godere delle gioie della vita in maniera partecipativa. La giovinezza non è solo vista come un ricordo, ma vissuta, dato l’utilizzo del tempo presente, come se si trattasse di un momento attuale.
Così come in altre poesie di Leopardi, anche ne Il passero solitario ci sono molte immagini indefinite e vaghe, tanto care al poeta, che stimolano l’immaginazione. “Alla campagna”, “per lo seren”, “torre antica”, “campagna rimota”: questi sono tutti riferimenti indefiniti, complementi di luogo indeterminati, che contribuiscono a evocare lontane vastità nel poeta e in chi lo legge.
Analisi metrica e retorica
Il passero solitario è composta da tre strofe di lunghezza variabile, cono libera alternanza di endecasillabi e settenari; le rime non seguono uno schema metrico prefissato (e spesso abbandonano la posizione liminare per presentarsi come rime al mezzo, es. "armenti"-"contenti").
Il ritmo dilatato e vago del componimento è conferito grazie all’ampio utilizzo di enjambements (vv. 1-2; vv. 5-6; vv. 9-10; vv. 15-16; vv. 17-18...).
La poesia è costituita da una lunga apostrofe all’uccello, ideale interlocutore del poeta (solo nell’ultima strofa il passero solitario sarà sostituito da "amore" in una nuova apostrofe). Un’altra figura retorica cardine del testo è il parallelismo che il poeta instaura tra sé e l’uccello.
Altra figura retorica fondamentale è la metafora: la primavera rappresenta la giovinezza; il tramonto il termine della gioventù.
Al di là di questi interventi macroscopici, il testo presenta una trama di figure retoriche più sottile, di cui vale la pena sottolineare:
- numerose allitterazioni;
- anafore: "non" (vv. 13-14), "quasi" (vv. 23-24), "odi" (vv. 29-30), "che" (vv. 56-57);
- chiasmi: "brilla nell’aria, e per li campi esulta" (v. 6), "greggi belar, muggire armenti" (v. 8);
- anastrofi: "dell’anno e di tua vita il più bel fiore" (v. 16), "del viver mio la primavera" (v. 26), "di natura è frutto" (v. 48), "di vecchiezza / la detestata soglia" (vv. 50-51).
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il passero solitario” di Leopardi: parafrasi e analisi del testo
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Egregi,
sono spiacente dover farVi notare che il passero solitario è una specie passeriforme ben individuata, tra l’altro screziata di colore azzurro, che effettivamente canta e non cinguetta come invece sa solo fare il passero comune che inoltre vive gregario.
Grazie per l’attenzione.
Ennio Prioglio