La madre naturale di Pablo Neruda, Rosa Neftalì Basoalto Opazo, morì di tubercolosi appena due mesi dopo la nascita del bambino.
Era un’insegnante e lasciò in eredità al figlio la sua passione più grande: la poesia, che scorreva nel sangue della famiglia di generazione in generazione. Neruda accolse il suo dono, ma non conobbe mai quella donna che tanto lo aveva atteso e amato.
Il padre di Neruda, José del Carmen Reyes, in seguito alla morte della moglie, decise di trasferirsi a Temuco, nel sud del Cile, e qui poco dopo convolò a nozze con Trinidad Candìa Marverde.
Fu Trinidad la “madre” per Pablo Neruda: la donna dolce e premurosa che lo crebbe, lo accudì e lo consolò. Alla matrigna il piccolo Neruda affibbiò l’appellativo dolce di “Mamadre” che riprende l’affettuoso “Mamà” unendolo al verbo “mamar” che indica l’atto proprio dell’allattamento.
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Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto (Einaudi, 1974), Neruda definì Trinidad come “l’angelo tutelare della mia infanzia” e a lei dedicò alcune poesie contenute nei cinque libri del Memorial de Isla Negra la raccolta più celebre della sua produzione poetica nella quale la figura della madre adottiva compare, scompare e riappare di continuo come un fil rouge dell’infanzia continuamente evocato dalle parole.
A lei Neruda dedicò l’intensa poesia Mamadre che è un autentico canto d’amore. Nelle sue parole la donna rivive, giovane e amorevole, in tutte le buone azioni da lei compiute nel corso della vita. Nella conclusione il poeta - ormai adulto e capace di reggersi sulle proprie gambe saldamente - piange la sua scomparsa prematura e ribadisce che la donna, la madre che lo ha accudito e cresciuto, vivrà per sempre nei suoi pensieri.
La celebrazione della Festa della mamma è un’ottima occasione per scoprire testo e analisi della bella poesia che il poeta cileno dedicò alla madre adottiva. Una poesia piena d’amore filiale che ci ricorda che le “madri” non sono solo quelle biologiche.
La Mamadre di Pablo Neruda: testo
La Mamadre, eccola che arriva
con zoccoli di legno. Ieri notte
soffiò il vento del polo, si sfondarono
i tetti, crollarono
i muri e i ponti,
l’intera notte ringhiò con i suoi puma,
ed ora, nel mattino
del sole freddo, arriva
la mia Mamadre, signora
Trinidad Marverde,
dolce come la timida freschezza
del sole delle terre tempestose,
lanternina
minuta che si spegne
e si riaccende
perché tutti distinguano il sentiero.Oh, dolce Mamadre
– mai avrei potuto
dire matrigna –
ora
la mia bocca trema a definirti,
perché appena
fui in grado di capire
vidi la bontà vestita di miseri stracci scuri,
la santità più utile:
quella dell’acqua e della farina,
e questo fosti: la vita ti fece pane
e lì ti consumammo
nei lunghi inverni desolati
con la pioggia che grondava
dentro la casa
e la tua ubiqua umiltà
sgranava
l’aspro
cereale della miseria
come se andasse
spartendo
un fiume di diamanti.Ahi, mamma, come avrei potuto
vivere senza ricordarti
ad ogni mio istante?
Non è possibile. Io porto
il tuo Marverde nel mio sangue,
il cognome
di quelle
dolci mani
che ritagliarono da un sacco di farina
le braghette della mia infanzia,
colei che cucinò, stirò, lavò,
seminò, calmò la febbre,
e, quando ebbe fatto tutto
ed io ormai potevo
reggermi saldamente sulle mie gambe,
si ritirò, cortese, schiva,
nella piccola bara
dove per la prima volta se ne rimase oziosa
sotto la dura pioggia di Temuco.
La Mamadre di Pablo Neruda: analisi
La poesia è scritta con un lessico semplice e intessuto da allitterazioni e assonanze che lo rendono melodioso come un canto. Nella prima strofa il poeta evoca la figura della madre adottiva che sembra apparire come una fata nel mezzo delle piogge di Temuco, cittadina del Cile meridionale dove Neruda trascorse l’infanzia e l’adolescenza.
La donna si premura di chiudere porte e finestre per proteggere la casa - e dunque la famiglia - dalla tempesta in arrivo. Difende la sua famiglia e la sua tana con la forza di una leonessa che protegge i propri cuccioli.
Il poeta ci rivela anche l’animo nobile e compassionevole di Trinidad, che si preoccupa per i viandanti che saranno colti dalla pioggia lungo il sentiero e allora accende una lanternina per indicare loro la strada da seguire.
Neruda chiama la madre adottiva con il suo nome intero soltanto una volta “signora Trinidad Marverde”, per tutto il resto della poesia sarà indentificata dal dolce appellativo “Mamadre”. La paragona al sole, alla luce, e a tutto ciò che si contrappone all’infuriare della tempesta.
Nella seconda strofa il poeta rivela che Trinidad non è davvero sua madre, ma subito si premura di aggiungere: “mai avrei potuto chiamarla matrigna”. Perché la bontà di Trinidad non si associa ad alcun termine che comporti una connotazione dispregiativa. Il poeta ricorda la donna che vestita in abiti umili si faceva essa stessa nutrimento per la propria famiglia, dividendo il pane nel calore della casa mentre fuori batteva la pioggia fitta di Temuco. Il pane diviso dalle mani della donna diventa quindi, metaforicamente, un fiume di diamanti agli occhi del piccolo Neruda che comprende quanto sia prezioso quel dono nato dalla miseria.
L’ultima strofa è la più struggente. Si apre con un’intensa invocazione e stavolta il poeta non chiama Trinidad con alcun appellativo o vezzeggiativo, non la chiama neppure con il suo nome ma le attribuisce il titolo supremo: alla fine, soltanto alla fine, la chiama “mamma”.
Ahi, mamma, come avrei potuto
vivere senza ricordarti
ad ogni mio istante?
Segue una descrizione di tutto quello che è una “madre” - definizione che non per forza si lega a una maternità biologica. La madre, dice Neruda, è colei che cura e accudisce con dolci e tenere mani, colei che nutre e consola, che trasforma ogni piccolo gesto in un atto d’amore: come tagliare un paio di pantaloncini da un sacco di iuta. È colei che calma la febbre e fa scordare gli occhi.
E tutto questo è stata Trinidad per Neruda. Una donna umile e affaccendata che ha dedicato la propria vita a crescere quel bambino non suo, ma che amò infinitamente. “E quando ebbe fatto tutto”, conclude il poeta alludendo al fatto che lui alla fine sia cresciuto forte, sano e saldo sulle sue gambe, ecco che Trinidad muore. Neruda descrive la scomparsa della donna come un’uscita di scena in punta di piedi. La sua bara è “piccola” e questo aggettivo sottolinea l’umiltà che ha sempre accompagnato la madre in vita: persino nel congedo estremo Trinidad sembra non voler occupare troppo spazio, non vuole suscitare troppo clamore.
L’eterno riposo, osserva il poeta, forse finalmente le garantirà l’ozio che non ha mai potuto godere in vita perché troppo impegnata a prendersi cura degli altri.
La pioggia aspra, dura, terrena di Temuco che aveva aperto la poesia sembra chiudere la scena scendendo impietosa sulla bara.
I gesti buoni, semplici e pieni d’amore di Trinidad si concludono in una piccola bara ma sono eterni nella memoria del poeta che non potrà dimenticarli finché vive. Che sente ancora scorrere nel sangue l’amore che Trinidad gli ha dato. Ecco, forse è questo il senso della maternità: l’atto di cura che sostiene la vita.
La “Mamadre” di Neruda è stata una madre della cura, non biologica, ma una “madre amorosa” che ci ricorda che l’amore non conosce vincoli di sangue né di parentela.
Recensione del libro
La casa del caffè. Il profumo di un mondo lontano
di Fenja Luders
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La Mamadre”: la poesia che Pablo Neruda dedicò alla madre adottiva
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