Due libri a confronto sul mito americano: Mario Soldati con "America primo amore" e Silvia Pareschi con "I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani". Quando la scrittura diventa narrazione e sentimento della lontananza, condizione endemica della vita umana.
L’America non è soltanto una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America.
Si potrebbe compendiare in questa frase felice il sentimento dominante che attraversa le pagine di “America primo amore” di Mario Soldati (Sellerio, 2003), pubblicato nel 1935, al rientro in Italia, dopo il biennio trascorso dall’autore negli Stati Uniti. Soldati era sbarcato in America nel 1929, con una borsa di Studio per la Columbia University e vi rimase fino al 1931.
Non fu un soggiorno idilliaco per il brillante ex allievo del Liceo D’Azeglio di Torino, che vi era giunto “fuggendo dall’Italia” ormai saldamente nella morsa del Fascismo e scossa da venti di guerra. Qualche anno dopo Vittorini avrebbe pubblicato clandestinamente l’antologia “Americana” (1941) con cui avrebbe contribuito a edificare la versione letteraria del Mito americano nella mente e nell’immaginario di intellettuali e lettori italiani atrofizzati da lunghi anni di autarchia e di censura da parte del Regime.
Ma rispetto all’America vittoriniana, splendida e irreale nella potenza trasfiguratrice e allegorizzante della parola tradotta, quella che Soldati affresca nel suo libro è un’altra cosa. Una realtà vissuta, non soltanto immaginata e dunque nuda e priva di vernici per lo straniero che quotidianamente la osserva e ne sperimenta “da fuori” limiti e contraddizioni.
Un’America normalizzata e miniaturizzata fin dal primo colpo d’occhio, tanto che le anatre che nuotano impassibili nelle acque della baia appaiono al giovane pieno di speranze che arriva a Neviorche su un bastimento strapieno di disperati uno spettacolo più interessante del profilo appena intravisto della Statua della Libertà. Al mito e al suo valore simbolico, il giovane Soldati contrappone istantaneamente il contravveleno di un umorismo e di una leggerezza dissacrante a cui uniformare lo sguardo e che dà a queste pagine una tinta peculiare e memorabile.
Pagine sorprendenti anche per lo stile, così spurio, inclassificabile, della narrazione: un po’ quaderno di viaggio, un po’ racconto autobiografico, un po’ diario intimo e pur tuttavia niente di tutto questo. Qualcosa d’altro si percepisce in queste scritture maturate nel vissuto e nella precarietà dell’esperienza e rielaborate poi nell’irrealtà del ricordo. La percezione di un’alterità, di un altro e un altrove che diventa man mano sempre più somigliante a tutto ciò che ci si era messo alle spalle, all’Italia, al resto del mondo, alla vita e alla storia umana con la sua ricorrenza di inganni e disinganni che si rincorrono in una musica di nostalgia (che somiglia al jazz) nel perimetro di un cerchio chiuso, sempre lo stesso.
L’America del proibizionismo, della grave crisi economica susseguente al crollo di Wall Street, delle lotte sindacali e dei primi vagiti del cinema sonoro è una realtà dura e refrattaria ai sogni e alle promesse che il giovane emigrante ha portato con sé nella sua valigia e richiede un attrito costante, un corpo a corpo non dissimile da quella del malato con la sua malattia. Infatti, “ Il primo amore e il primo viaggio sono malattie che si somigliano.” Partito per restare definitivamente nella terra del sogno americano, Soldati frequenta per un po’ i corsi alla Columbia University, tiene qualche lezione su Dante e sull’arte italiana, corteggia inutilmente (come in una sequenza di un film di Woody Allen) una ragazza texana su un taxi che corre veloce nella notte sterminata; colleziona delusioni e incomprensioni nel dialogo tra sordi con il mondo accademico che gli dedica un’indifferenza cortese e alla fine, dopo due anni, torna indietro. Non diversa l’esperienza, più o meno negli stessi anni, di Moravia, che però era arrivato già bello di fama per il successo internazionale de “Gli Indifferenti”
,invitato da un’altra gloria italiana espatriata, Prezzolini e purtuttavia anche lui sedotto e abbandonato da un’America chiusa e sfuggente che lo costringe ben presto a rifare i bagagli.
Che cosa resta di queste pagine americane? Innanzitutto la copertina, bella e struggente. Di Carlo Levi arrestato proprio mentre stava ultimando nel suo studio il ritratto dell’amico scrittore e destinato di lì a poco al confino in Lucania in cui sarebbe maturata l’idea e la visione di un altro grande libro, “Cristo si è fermato a Eboli”. È il paradosso della grande letteratura, che nasce quasi sempre da una lontananza; come una bolla d’aria, sospesa nell’eterna condizione di esilio, inconciliabile e vitale, che scandisce ogni tappa, dalla più eroica alla più futile, del ciclico vagabondaggio umano. E in quella bolla è manifesto in trasparenza qualcosa, una parola, uno sguardo, che sia pure contraddittorio e informe, è destinato a durare, più degli stessi miti e dei monumenti.
Oltre mezzo secolo più tardi, la sedicenne Silvia assiste al “mitico” concerto di Springsteen e della sua band a San Siro, toccando “vette di estasi mistica” come può succedere solo a un’adolescente innamorata. Tempo dopo affronta un disumano viaggio in pullman di oltre ottanta ore, coast to coast da San Francisco a New York dove ad attenderla c’è il signor Amato, un napoletano immigrato, amico del padre, che l’accompagna a bordo della sua Chevrolet fino a Freehold, la città natale del grande Bruce.
Arrivano che è già buio, ma in tempo per conoscere il pizzaiolo di Bruce, osservare dall’esterno la scuola frequentata dal mito, la casa al 68 di South Street dove la famiglia Springsteen abitò dal 1962 al 1969 e infine la sartoria di Ralph, a cui la futura rockstar portava in gioventù i jeans da rammendare. Da questo tour incredibile e frenetico Silvia porterà con sé un paio di jeans appartenuti (forse…) a uno Springsteen ancora imberbe e sconosciuto. Peccato che la taglia sia troppo stretta anche per l’entusiasmo incondizionato di un’adolescente e quei pantaloni sapidi di memoria e del DNA dell’idolo resteranno appesi come un poster autografato o la reliquia di un Santo al muro della sua stanzetta.
Chissà se l’ineffabile guida, il signor Amato, era consapevole in quelle ore mirabolanti della missione iniziatica che si era assunto? E che con quel pellegrinaggio al sacrario di Freehold avrebbe consegnato alla sua giovane amica Silvia Pareschi, futura traduttrice della letteratura nord-americana, il simbolico ramo d’oro, indispensabile chiave di accesso non soltanto ad un mito, ma soprattutto all’anima più profonda di un Paese? Innescando nella sua giovane amica un modo diverso di osservare l’aspetto della realtà, di soffermarsi sulle cose guardandole di sbieco, da un’angolazione laterale, più appartata, cogliendole di sorpresa, per fotogrammi sparsi da rielaborare a lungo nella camera oscura della mente.
Un modo insomma di confrontarsi con il mito, ma con l’approccio un po’ iconoclasta di chi rivoltando un prezioso tappeto si sofferma a osservarne il rovescio, come se Pareschi avesse bisogno di decostruire dall’interno il mito americano, scomponendone la trama fino a ridurla ad un esile filamento per ricomporne nello sguardo il disegno più autentico (e dunque non stupisce se uno dei racconti è dedicato al Palazzo del Porno a San Francisco, piuttosto che ad un’ennesima ripassata del mito hollywoodiano) .
“I Jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani” (Giunti, 2016) è un libro di nove racconti; quello su cui ci siamo soffermati è l’ultimo e dà il titolo alla raccolta. Che, irritualmente, non è preceduta da alcuna prefazione, nota introduttiva, glossa esplicativa. Niente. C’è un esergo (una strofe tratta da una canzone celebre del Boss, “Thunder road”) e subito dopo la sequenza dei racconti, fino all’epilogo dei “jeans”. Che è come in certi arazzi, il dettaglio imprevedibile che cambia, spiazzandoci, la visione dell’insieme, costringendoci a contemplarlo in un modo altro.
Perché l’America cambia, come le sue metropoli. San Francisco, ad esempio, la città in cui Pareschi vive e lavora per metà anno, prima di rientrare, l’altra metà, in Italia, come una novella Proserpina (ma l’Ade? Qual è?). Luogo emblematico, San Francisco, di ogni frontiera, del passato dei cercatori d’oro e del presente della nuova generazione “techies”, avanguardia di una corsa disumana alla tecnologia, di un’America, dunque, che è qualcosa di più profondo e tellurico del suo Mito, esteriore, in apparenza orizzontale e granitico, avveniristico e senza passato; di cui Pareschi ci offre un’intelligenza non conforme a schematismi sociologici, politologici ecc che rischiano, pur nella loro forbitezza e acume, di appiattire nel luogo e nel senso comune.
C’è invece un legame tra la leggerezza dello stile e la consistenza degli argomenti trattati in queste storie che, refrattarie alla canonica separazione dei generi, mescolano fiction e cronaca, reportage e memoir, descrizioni gustose di tipologie umane e visioni liriche di ambienti. Ecco, ci sembra che questa modalità impura di scrivere (che ricorda il libro di Soldati), tra racconto e saggismo, conferisca a queste storie uno spessore peculiare, realistico e al contempo visionario, che si esercita, anche stilisticamente, nella volontà di sfidare con le armi dell’osservazione più che del giudizio, le illusioni ipertrofiche della contemporaneità calandosi a fondo dentro una sorta di anacronismo, che è in sostanza quella regressione, riscontrabile in molti racconti, dall’orizzonte del moderno al primitivo, dove la vita rivela le sue infinite fenditure e dove tutto è vero e un attimo dopo ambiguo, irriducibile ad una forma univoca.
Forse è necessario imparare ad oscillare tra ciò che è e ciò che non è mai stato, tra ciò che vorremmo essere e ciò che veramente siamo, per restare svegli e inappagati di realtà, per non farci sopraffare dal sentimento di irrealtà che ci assedia e per provare ancora “l’eccitazione di aver trovato una rara pepita di sincerità nel monotono deserto della correttezza politica” ?
Se così fosse, L’America affrescata da Pareschi non sarebbe (soltanto) un Paese, un luogo, un Mito tra gli altri, ma, come sosteneva Soldati “uno stato d’animo”, una categoria morale, e un modo, anticonformista, di vedere le cose, che comprende ancora la libertà e l’attenzione del diverso e del lontano.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Due libri a confronto: breve viaggio lungo un secolo nel mito americano
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