Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini, in via Borgonuovo 4 nel quartiere di Santo Stefano dove oggi si trova una targa commemorativa posta in suo onore.
Se fosse ancora qui oggi avrebbe compiuto cento anni, ma una morte violenta lo strappò alla vita nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Fu ucciso perché scomodo, un intellettuale ateo, omosessuale, comunista, che difendeva per vocazione le cause perse del Terzo mondo. Fu ucciso violentemente e ancora non si sa il perché. Ricordare la sua morte oggi è come scrutare all’interno di un’ombra, nell’abisso di un buio senza fondo, per questo oggi nel centenario della sua nascita vogliamo ricordare la “disperata vitalità” da lui cantata nelle sue poesie.
Si ha la percezione che non se ne sia mai andato davvero. Il suo nome è sempre presente, nelle citazioni, nei commenti, nei riferimenti letterari, nell’eternità delle poesie che continuano a decantare un amore, viscerale, inesausto per le strade di Roma. Il suo volto è un’immagine scolpita nell’immaginario collettivo: impossibile non vedere quei suoi grandi occhi scuri, profondi, che persino attraverso le fotografie in bianco e nero sembrano scrutarti dentro, prenderti l’anima e non lasciarla andare. Il suo viso così familiare, la mascella dura, i tratti severi che tuttavia sembrano addolcirsi nello sguardo, profondo, da pensatore.
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La società che Pasolini criticava ieri era la stessa di oggi, forse soprattutto quella di oggi. Le riflessioni contenute ne Gli scritti corsari posseggono tuttora una inaudita vitalità, parlano al nostro presente ancor più che al nostro passato: prefigurano il capitalismo, la deriva del consumismo, parlano del pericolo dell’omologazione.
La figura stessa di Pasolini, la sua tragica fine sul litorale di Ostia quel 2 novembre 1975, forse la comprendiamo meglio oggi di un tempo. O almeno la comprendiamo quanto basta per capire che cento anni dopo la sua nascita Pier Paolo Pasolini sarebbe venerato al pari di un eroe e non umiliato, come un diverso.
In una celebre lettera, datata 16 novembre 1975, la giornalista Oriana Fallaci scriveva:
Non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta
E allora non ci resta che ricordare Pier Paolo Pasolini attraverso le sue stesse parole, tramite la vitalità - disperata, come la definiva lui stesso - che trasuda dalle sue migliori poesie.
Poesie
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Supplica a mia madre
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Alla bandiera rossa
Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.
Gli italiani
L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterraida uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezzaa vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Padre nostro che sei nei cieli
Padre nostro che sei nei Cieli,
io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita.
Ho sempre avuto negli occhi un velo d’ironia.
Padre nostro che sei nei Cieli:
ecco un tuo figlio che, in terra, è padre…
È a terra, non si difende più…
Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti.
È loquace. Come quelli che hanno appena avuto
una disgrazia e sono abituati alle disgrazie.
Anzi, ha bisogno, lui, di parlare:
tanto che ti parla anche se tu non lo interroghi.
Quanta inutile buona educazione!
Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita.
Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere.
Per difendermi, dopo l’ironia, avevo il silenzio.Padre nostro che sei nei Cieli:
sono diventato padre, e il grigio degli alberi
sfioriti, e ormai senza frutti,
il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso.Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pasto
agli altri il mio potere perduto.
Infatti, Dio, io non ho mai dato l’ombra di uno scandalo.
Ero protetto dal mio possedere e dall’esperienza
del possedere, che mi rendeva, appunto,
ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre.
Ora tu mi hai lasciato.
Ah, ah, lo so ben io cosa ho sognato
quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te.
Ecco perché è cambiata la mia vita.E allora, poiché Ti ho,
che me ne faccio della paura del ridicolo?
I miei occhi sono divenuti due buffi e nudi
lampioni del mio deserto e della mia miseria.Padre nostro che sei nei Cieli!
Che me ne faccio della mia buona educazione?
Chiacchiererò con Te come una vecchia, o un povero
operaio che viene dalla campagna, reso quasi nudo
dalla coscienza dei quattro soldi che guadagna
e che dà subito alla moglie – restando, lui, squattrinato,
come un ragazzo, malgrado le sue tempie grigie
e i calzoni larghi e grigi delle persone anziane…Chiacchiererò con la mancanza di pudore
della gente inferiore, che Ti è tanto cara.
Sei contento? Ti confido il mio dolore;
e sto qui a aspettare la tua risposta
come un miserabile e buon gatto aspetta
gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,
come un bambino imbambolato e senza dignità.La buona reputazione, ah, ah!
Padre nostro che sei nei Cieli,
cosa me ne faccio della buona reputazione, e del destino
– che sembrava tutt’uno col mio corpo e il mio tratto –
di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me?
Che me ne faccio di questa persona
cosi ben difesa contro gli imprevisti?
Lo scandalo del contraddirmi
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel caloredegli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religionela sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originariadell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro piùio non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto.ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltantedei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:ma a che serve la luce?
Senza te tornavo
Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.
Le terme di Caracalla
Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni...
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte...Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natie
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi - già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia - il pastore
migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e
giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d’ulivo...Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po’ gobba,
due cosce certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,
e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.Vanno verso le Terme di Caracalla.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: 100 anni di Pier Paolo Pasolini: le migliori poesie
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