Autobiografia degli anni di mezzo
- Autore: Henry James
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2010
Henry James (New York 1843 - Londra 1916) è stato il grande scrittore che ha introdotto il genere del romanzo psicologico, indagando gli anfratti dell’anima, pur senza usare il termine "inconscio". Il genere dà molta più importanza all’analisi esatta e profonda delle caratteristiche psichiche dei personaggi, piuttosto che ai fatti narrati, che passano in secondo piano. Il flusso di coscienza adottato da James Joyce e da Virginia Woolf hanno un precedente essenziale in James.
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Rivisitarlo oggi, per me, ha una ragione precisa: lo scrittore tiene sempre conto della legge morale, insita in noi, basata sulla libertà individuale. Oggi che nulla sembra avere un punto fermo, per James questo è un "leitmotiv" imprescindibile.
In vita non ebbe dalla critica il riconoscimento pieno che meritava. Troppo autentico e sincero? La cinematografia invece, specie con i registi James Ivory (Gli europei, del 1979, e La coppa d’oro, 2000) e Jane Champion (Ritratto di signora, 1996) ha rivalutato il suo grande talento, purtroppo “post mortem”.
Per onore di cronaca e storia aggiungo che suo fratello William James è stato un eminente psicologo, lontano da Freud, tanto da studiare anche i fenomeni paranormali, (da Freud aborriti), vicino agli scienziati inglesi (uno fra questi è stato sir Oliver Lodge) della “Società per la Ricerca Psichica”. William James ha creato una sezione americana dell’associazione.
La produzione letteraria di Henry James è davvero sterminata, tra romanzi e racconti.
Scelgo Autobiografia degli anni di mezzo, pubblicato da Mattioli 1885 nel 2010 con la traduzione di Cecilia Mutti.
Il titolo è intrigante, ricorda il dantesco Nel mezzo del cammin di nostra vita. Nell’età di mezzo in genere siamo tutti chiamati a fare un bilancio dell’esistenza, fondata su determinati valori, a trarne un giudizio, eventualmente a correggere i nostri errori.
Anche Henry James compie questa operazione all’età di 42 anni, ma la sposta ai suoi 26 anni, quando prende la decisione più importante che lo matura e lo porta fuori dalla giovinezza: lasciare l’America e approdare a Liverpool, con meta Londra, attratto dal "vecchio mondo" europeo, percepito come scrigno di grandi tesori tradizionali. Ed effettivamente l’artista è naturalizzato britannico e alla fine chiederà la cittadinanza inglese.
Londra nei primi mesi e anni lo spaventa moltissimo, nel contempo lo attrae come una calamita. Sappiamo dalla psicologia che dietro a ogni paura e terrore si nasconde un desiderio, in genere represso. Lo scrittore è molto lucido, comprende benissimo i due lati della sua personalità. Si sente inadeguato, da qui la paura di essere respinto, sente quel mondo come "mostruoso", gigantesco, in parte negativo perché presuntuoso. Rispolvera la metafora di Davide e Golia, ma si considera un Davide impreparato. Nei primi capitoli del libro si attarda a descrivere minuziosamente il conflitto. Sente la forza inglese come "imperturbabile conformismo insulare", ostile allo straniero.
"La “chiave”, come ho spiegato prima, era saper apprezzare un’Inghilterra che si sentiva in diritto di voltare le spalle allo straniero, anche in maniera piuttosto diretta, e senza alcun timore di farlo.”
Ecco che il libro si rivela per ciò che veramente è: un romanzo di formazione, in cui il protagonista deve trovare l’autentico se stesso, di fronte a una realtà che desidera conquistare, ma è capace di vederne i difetti, l’ego storico esagerato, eppure splendente e attraente "come spesso accade alle cose ben invecchiate".
È a Londra che egli conquista l’autostima. Scopre che gli eminenti gentiluomini da cui è invitato a colazione hanno tutti lo stesso taglio di capelli, gli stessi baffi ("era quella un’epoca baffuta"), ma sono spesso persone superficiali, addirittura secondarie rispetto agli oggetti che li circondano:
"Tutti i luoghi erano intrisi di particolari significativi che coglievo ad ogni sguardo, e mi confrontavo con essi, in alcuni felici momenti, molto più che con le persone che vi si aggiravano – e che reputavo alla stregua di elementi d’arredo inseriti puntigliosamente da un artista per ottenere un certo effetto nel rispetto delle proporzioni.”
Ma allora cos’è che James considera essenziale in Inghilterra, preferibile al nuovo mondo americano? Questo: “rifiutando di vivere in quel modo” si perdevano legami,
“ma la gioia stava nel rendersi conto che si guadagnava altrettanto in immunità e indipendenza, ed era anzi una vera benedizione: c’era libertà di percezione, di giudizio, e piena autonomia nell’avventura intellettuale.”
Tali contraddizioni egli le definisce “idiosincrasie dell’Inghilterra”. Riesce a trovare un compromesso, tra l’amato e aborrito; in ciò sta la sua conquistata maturità.
E c’è in James l’amore incondizionato per l’antico, sentimento condivisibile per tutti credo, i ricordi ci sono sempre molto cari; è un processo psichico universale. Prova
"il fascino di tutte le espressioni di piacevolezza fisica riconducibili al passato, anche più remoto; o, in altre parole, l’impulso di attribuire la palma della bellezza suprema a coloro che ci raggiungono dai meandri della nostra storia.”
Il romanzo è incompiuto, si ferma alla scoperta delle bellezze naturali del Northumberland, insieme a una mostra di pittura tenutasi là, a scopo benefico, ma il suo significato è sicuramente compiuto. Egli si sente a casa proprio nel luogo più tradizionale, portando decisamente il nuovo con i suoi affondi nell’universo psichico.
Autobiografia degli anni di mezzo
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