Il Consiglio d’Egitto
- Autore: Leonardo Sciascia
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2009
Nel romanzo Il Consiglio d’Egitto, pubblicato nel 1963 da Einaudi e oggi edito per Adelphi (2009), Sciascia, avvalendosi di una corposa documentazione, punta lo sguardo alla Sicilia settecentesca.
Dei fatti narrati, articolati e complessi che si svolgono dal dicembre 1782 a dopo la rivoluzione francese, tentiamo di cogliere appena alcuni nodi nevralgici.
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco alla corte di Napoli, sulla rotta del ritorno in patria naufraga sulle coste siciliane. Il viceré Domenico Caracciolo, accogliendolo a Palermo, l’affida al maltese don Giuseppe Vella, ritenuto conoscitore dell’arabo. Occasione unica per costui che vive modestamente dei proventi di frate cappellano dell’Ordine di Malta e di quelli che gli provengono dall’attività di "numerista del lotto" e "smorfiatore di sogni".
Poiché il diplomatico esprime il desiderio di vedere le tracce della cultura araba, si unisce ai due monsignor Airoldi, amante della storia siciliana e di cose arabe. Condotto al monastero di San Martino, dove da un secolo esiste un misterioso codice arabo, dichiara che si tratta soltanto di una modesta vita del profeta come ce ne sono tante. Per non rinunciare alla vita lussuosa tra gli aristocratici che sarebbe terminata alla partenza dell’ambasciatore, ecco la "grande impostura", il "lucido azzardo" volto a orientare il corso degli eventi in direzione diversa.
Vella – che dell’arabo ha in realtà una conoscenza insufficiente – ha in mente di mostrare che il codice martiniano è una preziosa raccolta di documenti riguardanti la Sicilia. Sicché, gli viene affidato da monsignor Airoldi il compito di tradurlo con l’offerta di una casa adatta al lavoro da svolgere e di altre benevolenze. Introdotto nei salotti della vita mondana palermitana, una sera il poeta Giovanni Meli lo informa della brutta considerazione in cui è tenuto:
"Don Rosario Gregorio va dicendo cose dell’altro mondo: che non sapete una parola di arabo, che il contenuto del codice di San Martino voi lo state inventando di sana pianta".
Intanto nella tranquillità della sua nuova casa, trasformata in "un antro di alchimia", corrompe il codice di San Martino e lo muta nel suo Consiglio di Sicilia, una rarissima storia dei musulmani in Sicilia. Nasce poi il nuovo progetto che diventerà il Consiglio d’Egitto contro i privilegi feudali. L’idea gli è suggerita dall’intento del viceré:
"incenerire tutta la dottrina giuridica feudale, tutto quel complesso di dottrine che la cultura siciliana aveva in più secoli, ingegnosamente, con artificio, elaborato per i baroni, a difesa dei loro privilegi".
È il potere dell’autorità regia sui baroni a essere riscritto da Vella con la creazione di documenti, data la convinzione sull’inesistenza della storia. Con il suo vivace ingegno nutrito di una fervente immaginazione rinuncia alla verità e sceglie la menzogna per ricostruire le cose della Sicilia normanna e nel suo arduo compito, quello di rimescolare le carte, riconciliato con la parte migliore di sé, si sente come un artista: un letterato che voluttuosamente utilizza la scrittura.
Per documentarsi frequenta l’avvocato Di Blasi, il giacobino che incarna i valori dell’illuminismo (s’incontra anche con i suoi due zii benedettini, Giovanni Evangelista e Salvatore). Su questo sfondo è centrale il rapporto tra i due: di forte identificazione, giacché entrambi, sia pure per vie diverse, si oppongono all’ordine esistente.
Completata la trasformazione del codice di San Martino nel Consiglio di Sicilia, don Giuseppe Vella si dedica alla stesura del Consiglio d’Egitto, pensando che tra qualche secolo, svelata la sua impostura, rimarrà l’opera come romanzo.
Per farsi aiutare, fa venire da Malta il monaco Giuseppe Cammilleri: uomo di mente gretta e lenta. A questi, che ogni tanto viene preso dagli scrupoli per la complicità nell’impostura, Vella risponde:
"il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che [c’è] più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla".
In un salotto, don Gioacchino intuisce il pericolo che il Consiglio d’Egitto possa costituire un danno per gli interessi dell’aristocrazia, ma non sa che la casa di Vella è inondata da ogni genere di regalie da parte dei nobili palermitani che fanno a gara per ingraziarselo. Caracciolo, che parte da Palermo con la speranza – l’illusione – di aver lasciato un segno di quel che sarebbe possibile e si dovrebbe fare per migliorare la vita della Sicilia, è uno sconfitto. Salutando Di Blasi, gli chiede: "Come si può essere siciliani?".
Vella è difeso dall’autorevolissimo orientalista Tychsen, professore a Rostock, al quale i suoi nemici hanno contrapposto un certo Hager, fatto venire in Sicilia a spese del re. Palermo è tutta dalla sua parte. Vella è "il grande Vella": è stato fatto socio dell’accademia di Napoli, il papa in persona si è preoccupato per la salute dei suoi occhi. Quando Hager chiede di consultare il materiale su cui egli ha lavorato, nel corso di una notte l’abate lo fa sparire, trasferendolo a casa della nipote. Ne denuncia il furto e si finge malato.
A palazzo Cesarò, il marchese di Villabianca spinge i presenti a valutare cosa accadrebbe se venisse provata la falsità dei codici dell’abate Vella: la Corona dovrebbe rinunciare a tutte le rivendicazioni. Dopo il trionfo che segue alla disputa, l’abate Vella, sentendosi stanco, decide di porre fine alla commedia di cui è protagonista.
Va a far visita a monsignor Airoldi e gli dimostra che il Consiglio d’Egitto è una falsificazione. Stravolto, monsignor Airoldi dice a Vella "Mi avete rovinato… Dovrei farvi arrestare" e gli intima di andarsene.
Di Blasi intanto vagheggia una repubblica siciliana, per lui il momento storico è propizio alla caduta del vecchio ordine. Scoperta la congiura, una volta arrestato comprende immediatamente di essere perduto. Silenzioso è l’addio alla madre che non vedrà più e ai suoi libri. Sottoposto alla tortura della corda, si impone di resistere e di non parlare, ricordando che circa due secoli prima il poeta Antonio Veneziano aveva subito sette tratti di corda "e tinni".
Steso sul tavolaccio della cella, medita sulla tortura. Ripensa alla madre, a certe visioni e sensazioni della sua vita. Pensa anche a Vella:
"Ha declinato a suo modo l’impostura della vita: allegramente… Non l’impostura della vita: l’impostura che è nella vita… È stata un’impostura anche la tua, una tragica impostura".
Pensa ai suoi tre complici, Tinaglia, La Villa e Palumbo: anch’essi non hanno parlato, hanno “tenuto”. Vella sa di Beccaria: la pena di morte e la tortura non lo hanno mai turbato, ma ora che un amico vi si trova di fronte sente come un malessere fisico l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartengono alla legge, alla giustizia. Nello scontro con il Potere, resta il vuoto morale assoluto; la libertà riformatrice, esaltata dalla cultura settecentesca, si dissolve nella sconfitta. A prevalere è pur sempre la coercizione delle istituzioni.
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