Dalle parti degli infedeli
- Autore: Leonardo Sciascia
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Adelphi
Nel 1979 Leonardo Sciascia pubblica nella collana La memoria dell’editore palermitano Sellerio l’operetta Dalle parti degli infedeli (riedito poi da Adelphi nel 1993), racconto-inchiesta in cui l’inquisito è Monsignor Angelo Ficarra. Originario di Canicattì, vescovo di Patti, è un uomo mite e tollerante che crede "nel Dio della verità, nel Dio della giustizia", eppure viene ritenuto ribelle non avendo fatto nulla nella sua diocesi per impedire la sconfitta della democrazia cristiana.
Costruita su documenti storici (lettere, appunti, note diaristiche), la narrazione, che vuole indagare su una congiura che ne infanga la dignità, nasce da coincidenze, borgesianamente ritenute “l’unica scienza certa”. Difatti, sin dalle prime pagine, lo scrittore di Racalmuto scrive:
“Ma perché meravigliarci della causalità della casualità, di tutti gli assortimenti, i ritorni, le ripetizioni, le coincidenze, le speculari rispondenze tra realtà e fantasia, le indefettibili circolarità di cui è fitta la vita e ogni vita: se rappresentiamo – ormai lo sappiamo – il solo ordine possibile?”.
Il 2 agosto del 1979 Sciascia prende in mano le carte a sua disposizione e il primo documento che legge è una lettera anonima indirizzata a Monsignor Angelo Ficarra. L’intento persecutorio è chiaro. La lettera reca il ritaglio di un articolo dell’"Osservatore romano", scritto allo scopo di denigrarlo, evidenziando il confronto con un alto prelato. In qualità di detective, Sciascia dice: “Era il primo segno: e gli veniva, indubbiamente, da un prete”.
Il vescovo non se ne cura; lo preoccupa di più la lettera della Sacra Congregazione Concistoriale, firmata dal cardinale Rossi e datata 31 marzo 1947, nella quale si danno istruzioni ai vescovi affinché impartiscano ai fedeli i dovuti insegnamenti per le elezioni politiche o amministrative. I Cattolici, vi si dice, possono soltanto votare quelle liste di candidati che rispetteranno e difenderanno i diritti della religione. Ma l’anno precedente, a Patti nelle amministrative, essi erano stati sconfitti dai comunisti e la democrazia cristiana aveva ritenuto responsabile il vescovo, sperando che potesse andare via per dimissioni o per trasferimento, inadatto ormai al nuovo corso delle cose.
C’è da dire che l’ostilità nei suoi riguardi era cominciata nell’ottobre del 1938, quando aveva proibito, rispettando una disposizione dell’Episcopato Siculo, la proiezione di due film, voluta dai gerarchi fascisti, in coincidenza con la festa al santo patrono di Librizzi (piccolo paese della diocesi). L’intervento del futuro Pio XII non si era fatto attendere: bisogna avere il senso dell’opportunità, non sapere e non vedere. Il conflitto con l’autorità vaticana si sarebbe riacceso dieci anni dopo per durare circa dieci anni.
Nel 1949, in merito alla sconfitta della Democrazia Cristiana, gli si ripetono le stesse accuse con lettere della Sacra Congregazione firmate dal cardinale Piazza e vengono a lui richieste informazioni, spiegazioni, discolpe. Si tratta, scrive Sciascia, di un processo “inquisitoriale – o stalinista”. Si fa perfino rifermento alle sue "non più floride condizioni di salute", anche se Monsignor Ficarra sta benissimo:
“Forse le non più floride condizioni di salute di vostra Eccellenza possono essere la causa non ultima di un simile stato di cose, nonostante lo zelo ed il vivo interessamento di Vostra Eccellenza. Ed è per questo che questa S. Congregazione è pronta a venirLe incontro qualora Vostra Eccellenza ritenesse di dover prendere una qualche decisione per il maggior bene delle anime. Voglia pertanto l’Eccellenza Vostra aprirmi confidenzialmente il Suo animo e farmi conoscere quelle decisioni che il Signore non mancherà di ispirarLe”.
Inquietano le miserabili calunnie non rispondenti al vero ed è la voce di Sciascia a far presente la manipolazione della coscienza del Ficarra:
“La doppia menzogna di tacere la ragione vera per cui si voleva la sua dimissione e di mettere avanti una eclatantemente falsa, suscitava il suo sdegno, la sua rivolta. Non poteva rassegnarsi a che dalla Chiesa, dalla sua Chiesa, gli venisse la menzogna; e tanto meno ad accettarla, a consentirvi, a farsene complice”.
Non pronunzia il fiat, anche se poi l’iniziativa da intrapresa con il cardinale Ruffini si rivela deludente. In definitiva, egli è un ostacolo al potere politico, mostrandosi indifferente alla politica, ma uomo di estremo candore non se ne rende conto.
Un particolare è degno di rilievo: specificamente la lettera del 10 gennaio 1952, in cui per la prima volta esplicitamente si chiede a monsignor Ficarra di dimettersi, richiede il segreto più assoluto con pena di scomunica nel caso di una sua violazione. La censura è totale, l’estorsione della rinuncia, lenta nel tempo, ma tenace e inflessibile, è del tutto arbitraria così come pretestuosa è la motivazione: il desiderato e meritato riposo.
La penosa vicenda sembra concludersi con la lettera del 10 marzo 1955 in cui viene disposta con provvedimento pontificio la sua sostituzione con la nomina sede plena di altro vescovo, già ausiliare nella diocesi di Patti. Monsignor Ficarra, che fa scattare il “siciliano amor proprio”, non lascia Patti “e passarono così altri due anni”.
Da un giornale locale di Canicattì, dove trascorre giorni di vacanza, a sua insaputa apprende le sue dimissioni e di essere stato promosso arcivescovo titolare di Leontopoli di Augustamnica: in partibus infedelium ("dalle parti degli infedeli"), come la Chiesa cattolica è solita fare quando vuol conferire a un suo prelato un titolo meramente formale.
Il commento di Sciascia è tagliente:
“Ma dalla parte degli infedeli, non nominalmente ma a tutti gli effetti, monsignor Ficarra c’era già stato”.
Il capitoletto X, l’ultimo del libro, si apre con la notizia data nell’ottobre del ‘57 dal settimanale "L’Espresso" sulla dimissione di vescovi, tra cui monsignor Angelo Ficarra. Altro stavolta il motivo: viene rintracciato sul manoscritto Religiosità in Sicilia che questi, prima di pubblicarlo, aveva mandato in visione e per deferenza alla Congregazione Concistoriale. La ragione scrive Sciascia:
"può assurgere alla generosità della storia italiana tra il 1945 e il 1955 – e della storia della Democrazia Cristiana nella storia italiana".
Tentativi di riabilitazione alla morte di Pio XII si rivelano infruttuosi, venendo definitivamente meno la giustizia e la verità. Nella Nota finale Sciascia spiega:
“che l’avere in tanti anni e in tanti libri inseguito i preti "cattivi" inevitabilmente mi ha portato a imbattermi in un prete "buono"".
Da quell’articolo egli rimane impressionato: la tesi sostenuta da Ficarra nel suo manoscritto concerne la refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana ed è rispondente alla sua manifestata nel libro, appena pubblicato, Feste religiose in Sicilia. Poi chiarisce che, stando a certe strane coincidenze, le carte del Vescovo gli arrivarono, e “dovevano arrivargli”.
Bisognerebbe leggerlo, questo libro il cui resoconto mostra appunto il volto brutale del potere laico e religioso, subdolo e prepotente. Sicuramente il lettore si sarà chiesto dove potesse trovarsi Leontopoli. Al chiarimento provvede la penna arguta di Sciascia che, oltre al danno, evidenzia la beffa: nessuna notizia sull’esistenza della Chiesa di "Leontopoli" nell’Enciclopedia Cattolica.
Quanto alla località, a parlarne è soltanto Flavio Giuseppe. Vi esisteva un tempio giudaico e l’antico storico ne racconta le origini e la storia. Una certa malizia da parte della curia vaticana?
Siamo nella scrittura come demistificazione di un’epurazione sofisticata attraverso continue pressioni agenti a livello psicologico. Dalle parti degli infedeli, oltre a essere interessante per la struttura compositiva, rivaluta la trasparente figura di un uomo di cultura e di candida fede, estraneo alle clientele politiche e al disegno temporale della sua Chiesa che si affermavano nello scontro violento tra democristiani e comunisti. La morte di monsignor Ficarra avviene improvvisamente a Canicattì il primo giugno 1959 mentre sta per uscire di casa. E senza un giorno della contestata "infermità".
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