Due settimane in un’altra città
- Autore: Irwin Shaw
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Bompiani
- Anno di pubblicazione: 2021
Torna in libreria dopo più di 60 anni, per i tipi di Bompiani, il quarto libro di Irwin Shaw: Due settimane in un’altra città. La traduzione resta quella perfetta di Luciano Bianciardi, lo scrittore del bellissimo La vita agra, romanzo che forse meriterebbe come il libro di Shaw una riedizione e dovrebbe essere trattato come un classico della letteratura italiana.
Ma per ora concentriamoci su Shaw. Diventato nel tempo uno scrittore per palati fini, negli anni Sessanta i suoi libri erano percepiti come romanzi di intrattenimento, come peraltro quelli della scrittrice Patricia Highsmith. I loro erano quei libri che si mettevano in tasca e si leggevano in treno per un viaggio lungo, oppure per viaggi da pendolari, che tornavano a casa dopo il lavoro, al posto del giornale.
Entrambi, Shaw e Highsmith, ignari del successo decretato con ritardo dai critici letterari, erano accomunati inoltre dalla decisione di abbandonare gli Stati Uniti per continuare le loro vite in Svizzera.
Shaw aveva anche provato a risiedere stabilmente a Parigi, ma senza successo. I rumori della città, la difficoltà di entrare nel milieu culturale, dove Sartre pontificava e i suoi epigoni lo guardavano come un genio, gli fecero prendere la decisione di vivere in Svizzera, lui che era nato nel Bronx nel 1913.
Non solo romanziere, ma anche sceneggiatore e uomo di teatro, con Due settimane in un’altra città Shaw ebbe un buon successo commerciale. Niente a che vedere con la saga dei Jordache, uscita in due volumi che ebbero un enorme successo mondiale col titolo Il ricco e il povero (ne è stata tratta anche una serie TV con Nick Nolte).
Il libro narra di un regista che si trova a Roma per un film, che però non va avanti, non funziona; gli attori sembrano fuori fuoco. A quel punto, il regista Delaney chiama al telefono Jack Andrus, che vive a Parigi, per farlo venire a Roma per due settimane, per aiutarlo a sbrogliare la matassa. Andrus lavora per la Nato, in seconde nozze ha sposato una francese, ora fa il papà di bambini pestiferi. Accetta, per l’antica amicizia col regista, che per un certo periodo lo rese famoso come attore. Vivere a Hollywood, sposare in prime nozze una attrice bellissima, cambiare il nome in James Royal fu per Andrus una specie di favola. Che si spense con la Seconda Guerra Mondiale. Non che avesse fatto qualche gesto eroico, ma aveva visto morire ragazzi giovanissimi. Il ritorno alla normalità fu un incubo. La moglie, ammalata di solitudine, era andata a letto con tutti i giovani uomini di Hollywood che non erano partiti per la guerra, riprendere con il cinema sembrava un’impresa senza senso. Tornò in Europa, in Francia per una nuova vita.
Quando scende dall’aereo, si trova in una Roma piovosa, umida, fredda e buia. La parola buia (o buio), Shaw la usa continuamente quando scrive di Roma. In realtà, gli americani, non solo Andrus, dormendo di giorno e andando a cena fuori la sera, non vedono mai uno spiraglio di luce e si devono accontentare dei pochi lampioni di Roma, dei ristoranti con poca luce, dei nightclub in penombra. E poi piove, piove sempre. Questa cappa chiusa di pioggia e oscurità mette all’ex attore la voglia di bere e di fare l’amore con una giovane ragazza italiana che non lo lascia un attimo. Nel secondo giorno romano, nella suite prenotata per lui, si trova con una ragazza nel letto, mentre lui deve andare negli studi cinematografici. E poi il cielo è plumbeo, il sole sembra si sia scordato della capitale italiana.
Anche col mal di testa da sbornia, il giovane uomo si accorge che il suo amico regista ha messo su pellicola una schifezza, ma non lo dice, perché non vuole urtarne la sensibilità. Alla fine Andrus ha anche capito, tradendo la moglie, perché era scappato da Parigi: il trantran lo stava uccidendo, non sopportava nemmeno i suoi bambini.
La sera stessa, in albergo, trova un giovanissimo uomo che lo vuole uccidere. Si presenta come il fidanzato della ragazza sedotta, di nome Veronica. Peccato che il signor Bresach, che si butta a mani nude su Andrus, non ha nemmeno la forza per reagire: da chissà quanto non mangia e si strugge, pensa l’ex attore che invita il tradito a cena.
I personaggi di Shaw sembrano stereotipati, ma in realtà sono pieni di sfumature e di contraddizioni. A cena c’è un ricco americano che ha il petrolio e una casa lussuosa, ma la moglie non può avere figli; Delaney invece ha litigato con la sua signora che ha scoperto la tresca del marito con l’attrice principale del film inguardabile.
Ne succedono così tante che Veronica torna a Roma sposata con un uomo ricco dal tono volgare, mentre Bresach, pur non avendo un soldo, è la gentilezza fatta persona, nevrotico come un personaggio di Woody Allen, nel 1960.
Nel frattempo, Andrus ha voglia di mollare figli e la seconda moglie francese per dare una mano a Delaney, che chiaramente non è più in grado di girare film. Ne ha fatti tanti, di tutti i tipi, gli manca l’ispirazione ed è stanchissimo. Intanto in questo gruppo di americani si inserisce anche la prima moglie di Andrus, Carlotta, che nonostante si sia presa tutto dal divorzio, facendo passare la bugia di essere la parte lesa, cerca di sedurre l’ex marito.
Nel frattempo a Roma il tempo è peggiorato, piove fitto e spiove per poco tempo, neanche fosse Londra. Tutti sembrano aver preso delle decisioni finché il regista Delaney non cade dalla sedia per un probabile ictus.
Questo avvenimento toglie al libro il ritmo forsennato che lo ha caratterizzato fino a ora. I protagonisti si accorgono che oltre al desiderio di emergere nella comunità americana si è sparsa la paura di morire in un paese straniero. Forse Roma con la sua pioggia ha sublimato un desiderio di farla finita, un desiderio di morte. Ma di fronte alla morte reale, al presunto ictus del regista, gli americani mettono in atto la loro peculiarità, ovvero quella di essere pratici, coi piedi per terra, anche se si è artisti.
Due settimane in un’altra città è un libro bellissimo sulle contraddizioni del vivere e sul desiderio di lasciare una traccia postuma di noi stessi, quando non ci saremo più.
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