L’Aleph
- Autore: Jorge Luis Borges
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
Parlare di Jorge Luis Borges significa parlare dell’infinito, dell’universo che il suo genio intuì compreso in tutte le cose, specie in quella bellissima “La rosa profonda”, dove “ogni cosa è infinite cose” e contraddice la rosa come semplice nome, e non archetipo, di Umberto Eco e titola una sua raccolta di poesie. Lo scrittore applica la formula “multum in parvo”, il molto nel poco, il tutto nell’uno. Si tratta di una metafisica neoplatonica oggi ripresa dalla fisica quantistica.
In prosa, Borges ripropone questa visione nei racconti de L’Aleph (Adelphi, pp. 171, 1998, traduzione di Francesco Tentori Montalto).
Si tratta forse del suo libro più conosciuto, il suo fascino non scema negli anni e appassiona le menti meditative. Pone domande cruciali: siamo eterni come eterno è l’universo? Che valore ha la memoria? Se ricordassimo ogni cosa fin nei minimi particolari, impazziremmo? Qual è il significato della memoria e dell’oblio? Chi è il nostro vero o presunto nemico, e quanta parte di lui è in noi, nostra proiezione, senza esserne consapevoli? Non sono temi di poco conto e costituiscono le motivazioni e l’impulso delle nostre azioni.
Borges pone L’Aleph come ultimo racconto della serie, quasi una sintesi di quanto espresso in precedenza con mirabile immaginazione, appoggiandosi alla sua cultura enciclopedica. “Aleph” è la prima lettera della lingua sacra, l’ebraismo, simboleggia la divinità, l’En sof, l’infinito insondabile e per l’umano incomprensibile; pure l’artista lo vede come una luce abbagliante, una piccola sfera del diametro di due centimetri, in una cantina, nel diciannovesimo gradino di una scala. Il fantastico, l’onirico, l’elemento visionario sovra-razionale si unisce qui alla filosofia più vertiginosa.
L’ultimo racconto è collegato al primo, L’immortale dove un legionario romano cerca un leggendario fiume, attraversato il quale si ottiene l’immortalità.
Lo trova e lo attraversa, incontra gli immortali, anche Omero. Diventa come loro.
Essi [gli immortali] sapevano che in un tempo infinito a ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d’ogni bontà, ma anche d’ogni tradimento, per le sue infamie del passato o del futuro. Come nei giochi d’azzardo le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio, così l’ingegno e la stoltezza si annullano e si correggono… […] So che alcuni operavano il male affinché nei secoli futuri ne derivasse il bene, o ne fosse derivato in quelli passati. Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma sono anche indifferenti.
Tale condizione si rivela quasi una tortura, toglie preziosità all’attimo fuggevole e irripetibile. Il legionario trova un altro fiume che gli restituisce il suo essere mortale. La lezione di Borges è che la morte non va temuta ma accettata, mentre Dio conserva tutto di noi.
Spesso Borges si è definito ateo; paradossalmente Dio è presente in tutti i suoi testi, ne è il protagonista imprescindibile.
In altri racconti del libro, come l’incontro di Teseo con il Minotauro, i personaggi scoprono di appartenersi, di essere la parte segreta uno dell’altro, ovvero l’ombra come l’ha definita Jung. In uno specchio, altro topos del Nostro, Teseo è il Minotauro, è la sua ferocia ma pure la sua prigionia nel labirinto, la sua solitaria malinconia.
Ne Gli eresiarchi, l’eretico Giovanni di Pannonia per Dio non è diverso dal suo accusatore Aureliano, che nel futuro morirà in un incendio. Si attua la legge del karma; senza dubbio Borges, studioso anche di orientalismo, vi allude. Giovanni sosteneva la circolarità del tempo, il cui simbolo è la ruota. Anche la croce, ruotando, è una ruota.
Si tratta di un libro sapienziale, ricco di movimenti e fatti, di enigmi, di contraddizioni di cui è intessuta la vita. Il lettore ne fa parte ed è invitato a trovare in se stesso le risposte alle sue domande.
Comprese che un destino non è migliore d’un altro, ma che ogni uomo deve compiere quello che porta in sé.
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