L’ultima pagina. Da Vladimir Majakovskij a David Foster Wallace, da Cesare Pavese a Virginia Woolf, storie di scrittori che hanno deciso di togliersi la vita
- Autore: Susanna Schimperna
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
In coda agli anni Venti e fino ai Cinquanta dello scorso Novecento, l’esistenzialismo ha divelto il pensiero filosofico da ogni architrave metafisica, concentrandosi sull’insensatezza, l’assurdo e il valore precario dell’individuo. Respinta al mittente la concezione autoreferenziale della vita, risulta utile concentrarsi su un postulato ontologico di fondamentale importanza: l’esistenza è priva di senso oggettivo e qualsiasi eventuale pretesa inconscia di felicità poggia su basi immature. La felicità è degli inconsapevoli, l’angoscia è la cifra pertinente a una visione adulta dell’esistenza. L’ultima pagina di Susanna Schimperna (Iacobellieditore, 2020) riepiloga vita, morte e tracce di scrittori attestati senza infingimento tra le lande oscure del mal de vivre. Scrittori andati incontro al suicidio dopo averne cullato l’idea, come si culla un bambino buono, o l’ipotesi di una via d’uscita.
La tenera Sylvia Plath che scrive su un biglietto “Chiamate il medico” e poi infila la testa nel forno col gas acceso. Cesare Pavese che si congeda scrivendo
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Yukio Mishima che fa harakiri come un antico samurai. Antonia Pozzi che manda giù un intero barattolo di barbiturici e poi va a stendersi sulla neve aspettando la morte. E ancora la sconveniente fino in fondo Sarah Kane che lascia scritto:
“Per favore non tagliatemi tutta per scoprire come sono morta ve lo dico io come sono morta. Cento di Lofepramina, quarantacinque di Zoplicone, venticinque di Temazepam e venti di Mellerin”.
David Foster Wallace che si impicca a una trave della sua casa a Claremont, California.
In tutto venticinque storie-paradigma di altrettanti uomini e donne (scrittori e scrittrici) paradigma, capaci cioè di osservare la vita dal lato peggiore e più autentico, senza edulcorazioni, attenuanti e a brutto muso, per capirci. Il disagio mentale non c’entra affatto. A volerla dire, anzi, fuori dai denti, risulta riduttivo liquidare l’atto suicidario come esclusiva espressione di grave disturbo distimico, o altro. In nemmeno due righe di feroce densità, dice bene Robert Coover (Inizi):
“Probabilmente per ricominciare tutto da capo se ne andò da solo su un’isola e si tirò una rivoltellata”.
Un personaggio alla Hemingway, insomma. O come Salgari, che ci aveva provato con la spada e finì per farlo col rasoio. Susanna Schimperna rivela e analizza in modo equanime ed efficace; l’ipocrita benpensantismo o la commiserazione bigotta girano alla larga da questo libro acuto e umanista a ciglia asciutte. L’ultima analisi spetta, a buon diritto, all’autrice:
“Il suicidio è ancora tabù. Anzi, lo è forse addirittura più di un tempo, quando andare incontro alla morte poteva essere giustificato da una forte fede religiosa che imponeva di diventarne testimoni, cioè martiri, da un amore senza speranze che richiedeva l’obbedienza a un patto estremo di fedeltà, da un credo politico esasperato, da un onore che sarebbe stato macchiato per sempre e soltanto l’atto supremo riusciva a preservare immacolato […] Oggi si considera al massimo con pietà anche chi fa del proprio corpo un simbolo e lo distrugge affinché il mondo si accorga del suo grido di protesta. Jan Palach, Bobby Sands, Barry Horne: ricordati a malapena e con loro tutti quelli che li hanno seguiti […] L’idea di sacrificio è giudicata antiquata e illogica. Pietà, certo, per chi si immola, ma insieme il sospetto che nella sua testa albergasse la follia […] Poi ci sono gli altri. I suicidi per motivi personali. I suicidi che continuiamo a ritenere indicibili. Onta per la famiglia. Pagina buia che è bene non venga illuminata e meno che mai divulgata […] Tra le domande da porsi c’è quella se dietro al tabù non ci sia il terrore di una libertà assoluta, che proprio in quanto assoluta è incontrollabile. L’individuo che sceglie la morte non può essere fermato, ricattato, assolto o condannato. In un attimo si è sottratto a ogni giudizio e responsabilità. E da dove è andato, che sia un piano diverso di esistenza o il nulla, se la ride di ciò che pensiamo di lui”. (pagg. 9-10-11)
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