La caduta di Berlino. L’ultima battaglia di Hitler
- Autore: Werner Haupt
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Dopo settantasei anni, tuttora sui muri di qualche edificio a Berlino si possono osservare i segni degli ultimi combattimenti dell’aprile-maggio 1945. Risaltano fori di proiettili sulle facciate di palazzi e i segni dell’accanirsi dell’artiglieria contro il muro di un grande rifugio antiaereo in cemento. Sono documenti visivi sorprendenti, riprodotti in alcune delle immagini di oggi a colori che insieme a numerose foto d’epoca e mappe corredano abbondantemente la riedizione di un classico, tra storia militare e narrativa, scritto da Werner Haupt nel dopoguerra, apparso in Italia nel 1965 e riproposto a metà 2020, col titolo La difesa di Berlino. L’ultima battaglia di Hitler (240 pagine, 25 euro), da Italia Storica, Associazione e casa editrice genovese di Andrea Lombardi, specializzata nella saggistica sulle due guerre mondiali, in particolare nel campo germanico.
Nella nuova traduzione riveduta e annotata dal Wehrmacht Research Group - che conduce studi internazionali sulle forze armate tedesche e dell’Asse nel secondo conflitto mondiale - si possono seguire le giornate della campagna finale, dall’Oder al centro della metropoli, caduta il 4 maggio 1945. E questo, tanto in un quadro generale delle vicende storiche che dalla prospettiva dell’equipaggio di un carro armato tedesco e di un reparto delle Waffen-SS, le unità combattenti del partito nazista. La particolarità è che si tratta di volontari francesi, arruolati nella divisione nazista Charlemagne, a quel punto ridotta a poche centinaia di granatieri, spinti a battersi fino all’ultimo contro i russi, sapendo di non avere scampo in caso di cattura.
“Il bolscevismo si dissanguerà davanti a Berlino, la capitale del Reich resterà tedesca”
Solo i difensori più fanatici credono alle parole del Führer e alla possibilità di fermare la massa d’urto dell’Armata Rossa, scatenata contro l’ultimo lembo della Germania, stretto nella morsa degli americani da Ovest e dai sovietici dall’Oder. Di certo non ci crede il generale Weibling, comandante di una divisione corazzata, esperto del fronte orientale decorato con la massima onorificenza militare nel 1944 e convinto che la difesa di Berlino sia del tutto inutile e costosa, esponendo i civili a una strage e le truppe a un sacrificio inutile. Vorrebbe sottrarre i combattenti validi al contatto con i sovietici e formare una forza con le poche divisioni a Sud, per trattare, ma con le armi in pugno.
Anche i carristi di un Panzer IV della divisione Munchenberg sono persuasi dell’inutilità della lotta, ma si battono ugualmente, come fanno da due anni. Il capocarro, che mostra i nastrino della Croce d’Oro, è il feldwebel Hartmann, non ha paura di niente ma non è avventato. Guida il tank il caporale Brinkmann, puntatore il sottufficiale Reinhart, uno spilungone amburghese. Il mitragliere-marconista Helbarg è nato in Sassonia, mentre il caporale ventiduenne Ramlau, armiere del pezzo, è un berlinese che sta zitto solo quando mette qualcosa sotto i denti.
Non può aspettarsi niente di positivo chi si rende conto che il grosso della guarnigione della “fortezza” di Berlino è composto da reparti della Volksturm, la milizia popolare obbligata dal regime all’estrema difesa della patria, una massa disorganizzata di anziani coi capelli grigi e di ragazzini della Hitler-jugend, armati solo di fucili, qualche panzerfaust anticarro e poche mitragliatrici del 1918.
Alle 5 del 16 aprile 1945, 22mila cannoni danno inizio all’offensiva decisiva contro il nazismo. Dopo il fuoco delle artiglierie russe, nella distruzione provocata da centinaia di bombardieri d’appoggio e sotto l’incubo terrificante di migliaia di razzi Katiuscia - chiamati l’Organo di Stalin per il rumore sibilante alla partenza - trecentomila soldati russi si lanciano all’assalto, al grido “uray!”. Forti di 2mila carri e 1800 aeroplani, intaccano ma non sfondano le linee tedesche. Pur provate, le truppe germaniche si battono, ma non gli possono essere negati un progetto tattico in cui credere e la possibilità di sganciarsi, evitando di farsi distruggere sul posto, in una difesa statica che porterebbe solo all’esaurimento delle forze e dei numeri.
È però l’unica tattica considerata da Hitler. Nello sbigottimento impotente dei pochi fedeli, il capo supremo continua a farneticare di “resistenza vittoriosa”, a spostare sulle carte divisioni corazzate già consumate o inesistenti. Chi non accetta le sue valutazioni, sempre lontane dalla realtà del fronte, è considerato un traditore. Gli ufficiali non disposti a eseguire ordini controproducenti vengono eliminati senza perdere tempo.
Sul capo del gen. Weiblink pende una condanna a morte, per non avere gettato le sue forze allo sbaraglio contro l’avanzata russa e averle fatte ritirare, per conservarne il potenziale bellico. Affronta Hitler in un faccia a faccia e non può che accettare d’essere messo al comando della difesa della capitale. Il 22 aprile i sovietici sono nei sobborghi: il fronte Oder non ha ceduto di schianto, ma punte sovietiche si sono insinuate tra le unità tedesche, costringendole a un ripiegamento attuato sempre combattendo.
Il destino della capitale è segnato, ma c’è da salvare quello individuale, l’onore militare e il futuro della Germania. Accompagnati ora su ora dal racconto di Haupt, i difensori combattono e muoiono a Berlino. Il panzer di Hartmann non si sottrae ai pericoli, i francesi della Charlemagne non si risparmiano. Weibling finisce in mano ai russi e rifiuta di collaborare: sarà condannato a 25 anni di carcere. Privato della posta fino al 1953, morirà due anni dopo, ancora in prigionia.
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