La fine della strada
- Autore: John Barth
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: minimum fax
Lo scrittore statunitense John Barth è morto recentemente all’età di 93 anni; le sue prime opere sono L’opera galleggiante, pubblicata nel 1956, e La fine della strada, del 1958; il suo terzo romanzo, Il coltivatore del Maryland del 1960, segna l’abbandono del realismo e l’inserimento di Barth tra gli scrittori più innovativi - insieme a Borges, Nabokov e Pynchon, e prima dell’avvento di Bolaño e Foster Wallace – del panorama internazionale di metà del novecento.
La trama di La fine della strada (n.d.r. ultima edizione minimum fax, 2020, prefazione di Simone Barillari, traduzione di Aldo Buzzi) è relativamente semplice: si tratta di due piani narrativi, il primo riguarda l’interlocuzione di Jacob, il protagonista, con una strana figura di medico, molto eterodosso, che cerca di salvare i suoi pazienti dalle pastoie della pretesa di poter avere accesso alla verità; il secondo descrive un ménage à trois tra il protagonista e la moglie di un insegnante, suo collega. La terapia del professore è basata sul trapianto dell’insensatezza della ragione: Jacob deve rimuovere la sua straordinaria capacità di tessere analisi razionali che in molti casi, di fronte ad un mondo stocastico, lo paralizza.
“La logica non vi darà mai la risposta alla mia domanda. Soltanto la Conoscenza del Mondo ve la darà… il mondo è fatto di ciò che vuole il caso e ciò che vuole il caso non è una questione di logica”.
Jacob vive in una strana foschia di sé stesso, una forma di ubiqua noncuranza. Fa questo ma sarebbe lo stesso se facesse, invece, quest’altro o non facesse nulla. In questa predisposizione d’animo, su suggerimento del professore che lo ha in cura, accetta un incarico di docente di grammatica inglese a Wicomico, un romito villaggio nel Maryland. Appena raggiunto il piccolo borgo, conosce i coniugi Joe e Rennie Morgan e ha una storia di sesso con Peggy, una donna in rotta con la sua età e con il prossimo, colpevole di non comprendere la sua femminilità.
Joe è l’immagine capovolta di Jacob, il suo negativo: dove questi è incerto e paralizzato dalla consapevolezza dell’inintelligibilità della realtà, quello è certo, deciso, lineare nel far seguire l’azione al pensiero. La moglie Rennie è succube del marito e si ritrova tra lo Scilla del nichilismo di Jacob e il Cariddi del neopositivismo di Joe: la farsa sta per trasformarsi in tragedia! Joe, almeno inizialmente, sembra assecondare una possibile relazione tra sua moglie e Jacob, in fondo una sorta di guanto di sfida tra due visioni del mondo. La gara è provare che si ha ragione, che la propria percezione delle cose è quella “giusta”, il che, si badi, non significa quella “vera”. Infatti, per Jacob la verità è impossibile da conseguire, per cui ci si dovrà rifare a una concezione probabilistica del reale: è vero non tanto l’occorso, ma quello che aveva ex ante maggiori probabilità di accadere. Questa è una concezione della verità che assomiglia molto a quella di cui si era dotato Musil nell’affrontare l’immenso L’uomo senza qualità.
“Non esiste nulla di simile alla verità quale voi la concepite”.
Il finale sembra geneticamente scritto nelle premesse: Jacob e Rennie, non visti, assistono a un episodio di masturbazione di Joe: è il meccanismo d’innesto, la perdita dell’alea da ultrauomo del marito; i due divengono amanti e corrono a rotta di collo verso un finale da tragedia greca...
John Barth rende Jacob un personaggio straordinario, degno di figurare nella galleria delle grandi figure della letteratura del Novecento; l’incipit con cui si presenta al lettore è un capolavoro di metafisica:
“In un certo senso io sono Jacob Horner”.
In un certo senso Horner è così e cosà, ma in infiniti altri sensi è invece l’opposto! Un uomo che ha subito una sorta d’intervento d’asportazione della reticenza, del conformismo: non riesce a mentire, dietro alla faccia abusata del quotidiano cerca di guardare dietro, oltre che di fronte; non solo per le grandi questioni, ma nella vita spicciola di tutti i giorni, la ricerca di un parcheggio, un invito a cena, le avances di una donna. Non ha compreso la falsità a tutti nota che nasconde, come un velo, il reale. In questo, Jacob è una sorta di principe Myškin, cioè l’idiota di Dostoevskij o il Don Chisciotte di Cervantes, ma non sui grandi temi morali, su Dio o sulla metafisica, bensì sulla vita banale, sul quotidiano. Come questi anti-eroi, anche Jacob vive la crisi dell’interagire con l’esistenza non nel senso della sua tragicità, no, molto meno: nel senso del suo darsi in farsa, in commedia dell’assurdo.
Per dirla con Nietzsche, attorno all’eroe tutto diventa tragedia, mentre attorno al semidio tutto è commedia. La crisi si pone come relazione con il mondo: la realtà che non si esaurisce o si lascia catturare da un’unica prospettiva. L’architettura linguistica è la meno tipica dell’opera di Barth: all’approccio altamente sperimentale, surrealistico e metanarrativo - che tanto ha influenzato un altro gigante del canone, Foster Wallace – ne La fine della strada incontriamo, invece, uno linguaggio essenziale, un significante lineare ma in grado di trasmettere con grande efficacia la densità filosofia dei dialoghi.
La fine della strada
Amazon.it: 16,14 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La fine della strada
Lascia il tuo commento