La mia isola è Las Vegas
- Autore: Vincenzo Consolo
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2014
Brevi, ma succosi e delicati i cinquantadue racconti di Vincenzo Consolo raccolti da Nicolò Messina nel libro postumo La mia isola è Las Vegas (Oscar Mondadori, Milano 2019).
Prende il titolo da una delle storie in cui il narrante, lontano dalla Sicilia, in modo misuratamente struggente confessa la sua nostalgia causata dalla lontananza:
Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato. Ora sono lontano da lei e ne soffro, mi struggo di nostalgia per lei. Vivo ora al Nord, non dico il nome della città per non offendere i miei amici di qua […]. Comunque, il Nord voglio precisare, è la Lombardia, questa ricca regione di gente che sa come fare i dané, eccome lo sa! […]. Io sono oriundo di Catania, e quindi uomo pratico, come tutti i catanesi, non burdascio come i messinesi o borioso o supponente come i palermitani. Catanese e sempre devoto, fedele, non alla patrona Sant’Agata, ma a un’altra che si chiama Santa Paola.
Pensa al cielo azzurro della sua Sicilia l’anonimo personaggio, all’aria pura e al mare limpido, nonché alle coste “vergini, bellissime”.
Eppure, a dirla con Bufalino, la luce e il lutto, quali aspetti della duplicità, sono inseparabili. In Sicilia la bellezza paesaggistica è deturpata dalle costruzioni abusive e infettata dalla mafia; nel contempo non mancano figure esemplari nella letteratura.
Il brano, venato di leggera ironia o satira, è dolceamaro:
Terra antica, nobile e ricca la mia Sicilia. Terra importante. Qui vi nacquero ‘Mpedocle e Rachimede, e ancora Meli, Virga, Capuana, Birandellu. E vi nascèro pure, in tempi più recenti, il gran governatore Totò Cuffaro, il sottoministro Gianfranco Miccichè, il dottissimo senatore Dell’Utri, il grande giornalista Emilio Fede, gli onorevoli Schifani, La Russa, Trantino, e i ministri La Loggia, Martino...
Quella di Consolo è una Sicilia afflitta da penurie e carestie resa da una prosa sferzante nei riguardi del sistema mafioso che già nel secondo dopoguerra avrebbe voluto che la Sicilia diventasse la 49sima stella degli Stati Uniti d’America. Il fine umorismo non finisce di sorprendere:
Ho abbastanza anni per ricordarmi il Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile. Ah, se avesse allora vinto! […]. Quest’isola in mezzo al Mediterraneo in mano agli americani sarebbe affogata nell’oro. Sarebbe diventata, l’Isola, con casinò, teatri, i più liberi commerci, come Las Vegas o come la Cuba del beato tempo di Fulgenzio Batista.
Non è un caso che lo studioso Giuseppe Traina abbia scritto:
Buona parte del “corpus” dei racconti brevi compreso in “La mia isola è Las Vegas” è rubricabile sotto il segno del comico, nelle varie forme dell’ironia, del sarcasmo, della deformazione parodica.
Il film del ricordo ha avvincenti e scorrevoli fotogrammi nel racconto “Il mare” in cui Consolo, in prima persona, mostra il suo rapporto con la distesa marina: <
La “beata contemplazione” che si estende fino allo stretto di Messina si muta nel dolore umano; a tratti pare di respirare l’aria dei Malavoglia: sicché, il mare del diletto e della spensieratezza, quello di Sant’Agata di Militello, diventa amaro e nero. Torna il gusto della vita al cessare della guerra: riprendono i bagni e le remate; il procedimento memorialistico si slarga quando il ragazzo comincia a frequentare le Eolie; da cronista poi può visitare altri mari e altri porti di Sicilia, toccando con mano luoghi divenuti infernali come Priolo, Augusta, Gela, entrambi oltraggiati dal Petrolchimico.
Le parole condannano una politica devastatrice:
Luoghi tremendi, di tragedie di pena, e di vergogna per noi, come Porto Palo o Lampedusa, dove pescatori tirano nelle reti cadaveri di poveri “clandestini” annegati.
È il canto sulla difficoltosa vita dei pescatori ad ammaliare: siamo nel racconto “La grande vacanza orientale-occidentale”, in cui la visione paesaggistica si estende nella seconda parte dal mare ai Nebrodi, terra del sogno e del fantastico:
Poi la vita si staccò da quella spiaggia, dai compagni, dalle avventure. Rientrai nel centro e, acculturato, fui preso dal desiderio di conoscere il mondo che mi stava alle spalle, la terra che si stendeva al di là della barriera dei Nebrodi. Immaginai quella terra come una infinita teoria di rovine, di antiche città, di teatri, di templi al sole splendenti o bagnati dal chiarore lunare, immersi in immensi silenzi.
La dimensione narrativa si fa mitica con uno sguardo così diretto e trasognato connotato dai lessemi “silenzio”, “solitudine”, “estraniamento”.
Il viaggio procede a oriente e nel centro della Sicilia; la coscienza geografica a Mozia si fa cronaca quando viene narrato l’incontro del viandante con il cosiddetto padrone del luogo: un uomo imponente che l’interroga sulla sua sosta in quel luogo (chi era, da dove veniva, che sapeva di Mozia, dei Fenici e quale l’interesse che lo spingeva a visitare l’isola dello Stagnone).
Era il colonnello Lipari, che, a seguito delle domande poste e delle risposte fornite, gli dava finalmente il permesso di accedere all’isola. La descrizione è puntuale con attenzione anche alla vegetazione, la documentazione s’apre ad alcuni dettagli sui riti sacrificali dei fanciulli.
Da qui gli interrogativi sulla storia:
È crudeltà, massacro, orrore dunque la storia? Quei Fenici che sacrificavano i loro figli agli dèi erano quelli che avevano inventato il vetro e la porpora, e la scrittura segnica dei suoni, aleph, beth, daleth… l’alfabeto che poi usarono i Greci e i Latini, usiamo anche noi, quei Fenici che, con i loro commerci, per le vie del mare portarono in questo Mediterraneo occidentale nuove scoperte e nuove conoscenze.
Raggiunge poi Selinunte il quindicenne Consolo che, pernottando in una locanda, al risveglio può vedere “la prima scena del mondo”:
“La collina dell’Acropoli coi templi già illuminati dal sole”.
Emblema del paesaggio siciliano è l’arancio e di quest’albero scrive il Nostro nel racconto “Amaro, sogno e nostalgia”, timbrato da seduzioni coloristiche e olfattive. Colto il riferimento quando lo scrittore si chiede:
Gli aranceti greci del Peloponneso, tunisini di Nabeul o di Biserta, algerini di Orano o di Algeri, marocchini di Rabat o Marrakesh, spagnoli di Valencia o di Siviglia?
La grecità ora si armonizza con la cultura araba; della presenza dei Musulmani riferisce Consolo, ponendo l’accento sul mutamento del paesaggio amministrativo e agricolo dell’Isola, facendo riferimento alla Storia dei Musulmani di Sicilia di Michele Amari. Un accenno merita il racconto “Il miracolo”, tutto giocato sul sarcasmo: è la confessione grottesca ad alta voce d’una ragazza che, votata alla preghiera e all’astinenza, cede alle voglie di un “nero giovinetto” in cui proietta le sembianze di San Benedetto il Moro cui è devota.
Dopo l’abbandono estatico-sensuale si convince di essere stata messa incinta dal Santo anziché da un giovane immigrato negro capitato per caso in casa sua a chiedere accoglienza.
Ecco la conclusione che ha qualcosa dell’umorismo pirandelliano:
Il giorno dopo, non c’era segno o traccia dell’apparizione in casa mia di quel Santo. Sola traccia e unico segno ora, padre mio, questo rigonfio qui nel mio corpo, questo frutto del miracolo che matura sull’umile terreno, nel ventre mio di vergine.
Da un’ottica storica si profila il racconto “E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte”, dove lo scrittore prende in esame gli episodi che caratterizzarono la piccola colonia inglese in terra di Sicilia, nonché i fatti di Bronte con la seguente avvertenza:
Non un libro, ma una breve esposizione noi abbiamo voluto fare di questa storia, cucendo assieme notizie attinte da diversi libri. E forse sono proprio le cuciture, unico nostro lavoro, che alla fine risultano mal riuscite.
Il racconto, che si collega con il romanzo Nottetempo, casa per casa, s’intitola “C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù” (dapprima pubblicato in “Tempo illustrato”, 2 ottobre 1971). Il diavolo è un personaggio che aveva soggiornato a Cefalù per quattro anni dal 1920 al ‘23: Aleister Crowley, mago famosissimo, mistico da considerarsi il padre dei “beatniks” e degli “hippies”, espressione dell’irrazionalismo e del decadentismo.
Consolo, che mostra di conoscere i suoi scritti, si sofferma sugli anni da lui trascorsi a Cefalù. Diavolo, dunque, secondo la maledizione della madre insofferente della sua irrequietezza; stando alla profezia che si avvera, egli decise di diventare la Grande Bestia, ribellandosi alla famiglia, alla società, alla tradizione, al cristianesimo. Il fascino da lui esercitato gli consentì un ampio proselitismo maschile e femminile. E abbiamo una minuziosa descrizione dei suoi riti orgiastici.
Oscuri e insondabili i “sentieri oscuri” delle sue estasi e delle sue allucinazioni. Inevitabile il conflitto con Mussolini per la sua crociata anticristiana.
A questo punto le notazioni di Consolo s’aprono alla Grande Storia:
Ma lui, il suo superuomismo, il suo misticismo, la sua irrazionalità, come il superuomismo, la irrazionalità, l’immaginifico del nostro Gabrielino D’Annunzio erano la spia di qualcosa di inquietante e di tragico che si affacciava nella storia.
Giungono a Cefalù nel febbraio del 1924 Giacomo Matteotti e l’avvocato Nicotri, candidato della lista socialista della Sicilia.
Devono tenere un comizio in vista delle prossime elezioni, ma mentre desinano al ristorante Domina, vengono scoperti dai fascisti, lanciando loro fischi e insolenze.
Il racconto giunge alla lunga notte che avvolse il Paese:
Qualche mese dopo questo episodio di Cefalù, Giacomo Matteotti veniva assassinato a Roma dai sicari di Mussolini. Anche oggi i maghi, il misticismo, il floreale, le droghe, l’irrazionale sono tornati di moda. Oggi rigurgita ancora il vecchio fascismo e nuovi fascismi sono sorti. Che ridicoli topolini partoriti dalla montagna, come diceva Aleister Crowley, non ci preparino assurde tragedie.
Tante per Consolo le inquietudini e le preoccupazioni che ha considerato, afferma Giuseppe Traina:
“l’equivalenza tra il dilagare dell’irrazionalità e l’avvento di regimi dittatoriali”.
Appena un accenno meritano i racconti “Le vele apparivano a Mozia” e “Le macerie di Palermo”.
Il primo riprende il tema del viaggio con Fabrizio Clerici e Guttuso da Palermo con deviazione a Mozia e accenna alla sua prima visita che anticipa il resoconto in Retablo; il secondo, in occasione d’un viaggio col padre nella capitale siciliana, distrutta dai bombardamenti, si ritrova nella farmacia del dottor Borsellino, dove vi era anche un bambino paffuto (ed era il giudice Paolo Borsellino).
In sostanza, i testi toccano gli argomenti dallo scrittore siciliano privilegiati; sono percorsi perlopiù ironici e anche feroci della società. Specificamente di una Sicilia vissuta con dolorosa coscienza critica.
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