Le avventure di Pat Hobby di Francis Scott Fitzgerald

Saranno forse lavori minori, Le avventure di Pat Hobby (Occam editore, 2024, traduzione di Flavio Santi)?
Ma il “minore” di uno scrittore come Francis Scott Fitzgerald è sempre una scrittura di struggente, poetica brillantezza. Mira sempre in alto, l’autore de Il Grande Gatsby, anche quando come in questi racconti sembra in apparenza oscillare fra l’ironia e il divertissment – basti vedere la chiusura a effetto del primo, dove lo sceneggiatore “inventato”, ma non troppo, da Fitzgerald prova a sfangarsela con un ricatto al produttore che non lo stima (e l’esito è rovinoso): già dice come la caratterizzazione dei personaggi lo scrittore sappia costruirla attraverso la freschezza vivida del fatto, della storia.

Lo scrittore di Pat Hobby – nato nel 1896 - non è più quello dei “ruggenti anni ‘20”; si arrangia come sceneggiatore, tal quale il suo personaggio, fra momenti di gloria e precipitose cadute.
Come Pat, Fitzgerald aveva vissuto un periodo luminoso, l’età del jazz - era stata quella anche della propria, personale fortuna.
Ora vivacchia in un mondo di cui ha una pessima considerazione. Più che l’Hollywood dei miracoli sembra un’agenzia di miracolati, fatta di improbabili quanto loschi figuri che producono in gran parte schifezze.
Nemmeno miracolato Pat, mezzo alcolizzato, cinico, spregiudicato e pure a tratti un po’ fesso, credulone per necessità ma disposto a tutto, snobbato da produttori e mestieranti con cui ha malvolentieri a che fare, perso nei ricordi di una stagione felice ormai lontana (se Fitzgerald lo aveva sperimentato su di sé, questi racconti gli sarebbero stati ben pagati da Esquire). Ma se Pat è un mediocre, o almeno tale è diventato, Fitzgerald non ha smarrito il suo talento.
Non a caso, il traduttore, l’ottimo Flavio Santi di questa edizione Occam, nota con insistenza come il divertimento sia anche linguistico, come agisca già nelle scelte di nomi evocativi perché intenzionalmente proiettati verso una significazione, per lo più satireggiante. Ma non si fraintenda: né la prosa scintillante, né la costante del comico, incluso quello dei giochi di parole, impediscono al lettore di intravedere quanta malinconica e talora persino drammatica disperazione nascondano queste vite deragliate, a un passo dal cogliere l’attimo che le trasformi, lì a due passi dalle stanze hollywoodiane che contano; e che invece restano perennemente in bilico, non per l’insuccesso artistico ma per la fame, perché spesso mancano proprio i soldi.
Non rari viceversa gli incipit strepitosi: “Chi sarebbe ‘sto Welles?” – esclama Pat, il povero cristo che una volta godeva di “sfilze di mogli, cameriere e piscine” e adesso sente di continuo parlare di questo Orson Welles, l’astro nascente che sta facendo soldi a palate.
Il nostro non si capacita - ancor meno del fatto che il nuovo genio del cinema spadroneggi negli studios e lui a un certo punto nemmeno lo facciano entrare - che addirittura lo sfottano per questa ossessione.
Fitzgerald è caustico, al suo Pat non risparmia nulla, figuracce penose, pensieri imbarazzanti allo stesso tempo facendolo amare dal lettore alle prese con il teatro ilaro-tragico dell’esistenza - specie di chi ha pensato tutta la vita a giocarsela al cinema, senza farcela, o crollando a un certo punto, miserabilmente (come i più). Del resto, per farcela a Hollywood c’è bisogno di possedere talenti non solo, o non propriamente artistici - quella non era mica “arte”, ripeteva il nostro spesso e volentieri: quella era “un’industria”.

Ora, forse è colpa dell’immensa fama del Grande Gatsby, forse dello snobismo italiano (paradossale, perché la nostra tradizione letteraria ha avuto da dire, e bene, molto di più nella novella che nel romanzo) ma i racconti di Fitzgerald coi loro tagli acuminati, andrebbero conosciuti meglio, non solo dai suoi lettori storici, perché la qualità è sempre notevole. Questa raccolta lo conferma ancora una volta.