Il poemetto Le ceneri di Gramsci, che intitola la raccolta, fu scritto da Pier Paolo Pasolini nel 1954 e pubblicato in Nuovi Argomenti nel numero 17-18, tra il novembre 1955 e il febbraio 1956.
Il critico Giordano Meacci ha parlato di una sorta di discesa dantesca: assumendo Antonio Gramsci nel ruolo di Virgilio, Pasolini vuole misurarsi con lui. E ci sarebbe da pensare a un incontro di anime recluse nella solitudine, personaggi entrambi stranieri in patria che li ha costretti a restare esiliati dai propri affetti.
Le ceneri di Gramsci: analisi del poemetto di Pasolini
Il monologo si svolge in un insolito maggio autunnale, verso sera, quando l’autore si reca al cimitero degli inglesi (“giardino straniero”) di Roma, dov’è sepolto l’intellettuale sardo. E non a caso a maggio, essendo questo mese simbolo delle lotte operaie.
È buio intorno e l’atmosfera d’una “pace mortale” si armonizza con un tempo senza passione e slancio. Lo sguardo del poeta scorge il paesaggio intorno: il quartiere si sta imborghesendo (“gli attici giallini”); il silenzio è “infecondo e fradicio”, non essendoci idee nuove e solidi progetti, mentre il “grigiore del mondo” avanza senza speranza.
Con esso appare finito tra le macerie della guerra:
il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita.
Forte dunque il senso di sconfitta che si configura nella caduta di ogni illusione. Passando dalla terza alla prima persona, si rivolge a Gramsci, eroico e solitario, chiamandolo non padre ma “umile fratello”, prendendo così le distanze dal paternalismo inconcludente (c’è da dire che Pasolini aveva perduto il fratello Guido come partigiano): lo vede giovane nel tempo in cui l’errore era fonte di conoscenza, in “quel maggio italiano” ricco di entusiasmo quando il nobile pensatore aveva iniziato la vita con ardore, facendo luce sulla via da percorrere.
E lo sente “confinato” in un “sito estraneo”. Gli è intorno la “noia patrizia”, quella di una indifferente borghesia; da lontano giunge “qualche colpo d’incudine” degli operai. È il mondo popolare che viene evocato “tra misere tettoie, nudi / mucchi di latta, ferrivecchi”.
Emblematica l’immagine del garzone che, “cantando vizioso” già chiude la sua giornata “mentre intorno spiove”. Il cimitero accoglie i resti mortali di miliardari, di principi, di pederastri ed è di estrema decadenza: “Magri i cipressi”, nera l’umidità, “disadorni / sentori d’alga”.
Accorata la terza sezione che si apre con la descrizione della tomba di Gramsci:
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,diversamente rossi, due gerani,
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estraneimorti: Le ceneri di Gramsci…
Sta esiliato tra stranieri, e Pasolini, capitato per caso in un cimitero divenuto una “magra serra” davanti alla sua tomba, confessa in modo struggente la sua incapacità a scegliere:
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio…
Nella quarta sezione in modo dirompente affiorano le sue contraddizioni. Gramsci diventa l’interlocutore di un rapporto di confidenza e di confessione e il friulano oppone al rigore del sardo l’oscuro scandalo della sua coscienza con l’affermazione dello stigma della contraddizione di contro al alla coerenza e alla direzione che alla politica il sardo ha impresso:
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere…
Fortissima la lacerazione: sono con te nel momento in cui io sento ciò che è giusto; ma contro di te perché sono borghese (“del mio paterno stato traditore”), e non proletario. Sta nei versi successivi il differente modo di intendere il popolo. Se per Gramsci la “vita proletaria” ha la “millenaria sua lotta”, per Pasolini è “l’estetica passione”, sul piano vitalistico e irrazionale (“nel calore / degli istinti”), a porsi come legame tra lui e il mondo popolare.
A prevalere sulla coscienza di classe è la categoria estetica:
è per me religione / la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza.
Del popolo l’affascina una “luce poetica” che non gli proviene dall’essere marxista. Agisce in lui non la coscienza di classe, ma la forza originaria del mondo proletario, sentito da poeta e non da ideologo. Il dramma pasoliniano sta dunque nelle posizioni inconciliabili, ed è tale da esprimere le resistenze dell’intellettuale borghese di fronte al marxismo. Pasolini, paragonandosi ai poveri, ne condivide le “umilianti speranze”, e come loro, afferma, si batte ogni giorno per la sopravvivenza. Eppure si sente diverso: anche se economicamente diseredato, è pur sempre un borghese. Il dubbio lo sfiora: “Ma a che serve la luce”, si chiede se all’illuminazione della storia viene a mancare la “luce poetica”?.
La quinta sezione si apre con la dichiarazione che l’individuo ha la sua tradizione, tra cui la cultura religiosa. Malgrado sia vista come “ipoteca di morte”, diretta alla salvezza che inganna la luce, non si sente però di ripudiarla, giacché la dimensione del sacro smaschera l’inganno materialista (eloquente il chiasmo ossimorico: istituite le religioni “a ingannare la luce, a dar luce all’inganno”). Evidenzia poi le connessioni tra Gramsci e i modelli biblici presenti nei suoi scritti e, volgendo lo sguardo alla tomba di Shelley (seppellito non lontano nello stesso cimitero), si abbandona alla descrizione delle bellezze d’Italia che rapirono l’animo del romantico poeta inglese.
E torna in tal modo il fascino dell’estetismo rispetto al quale Gramsci diviene un “morto disadorno”.
Nell’interrogativo di chiusura si intravede tutto il suo tormento:
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
Il congedo dall’urna di Gramsci, di cui si parla nella VI sezione, avviene di sera.
Sono versi di bella poesia quelli con cui Pasolini fa in tempo a raccontargli la vita degli operai. Trovandosi poi fuori dalla cinta muraria del cimitero, osserva e descrive il paesaggio urbano e umano con la consapevolezza che andava sparendo con l’avanzare della società dei consumi e dei profitti. Malgrado l’imperfezione, non può privarsene, essendo per lui motivo di ispirazione.
Tant’è che alla fine del poemetto inquieta l’interrogativo morale:
Potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto
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Sempre molto interessanti le analisi del professore Federico Guastella, le seguo con vivo interesse. Complimenti.
Seguo sempre con vivo interesse le attente analisi del professor Guastella, le trovo ben organizzate ed espresse in un linguaggio chiaro e coinvolgente, riesce a farci entrare nel testo e farcelo apprezzare, stimolando la curiosità del lettore. I miei complimenti.