Nanni settanta. Fare cose, vedere gente: guida ragionata al morettismo
- Autore: Fabio Benincasa
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2024
Connotando di caratteristiche accattivanti i “nuovi mostri” sui quali di solito si concentra, la commedia all’italiana si macchia per ossimoro di un vizio di partenza: rendere innocua la stigmatizzazione dei tic dell’italiano medio che intende rappresentare.
Con la reiterata declinazione di nevrosi e idiosincrasie urticanti dell’alter ego Michele Apicella, la commedia (presunta) di Nanni Moretti per almeno dieci anni e sei film (da Io sono un autarchico a Palombella rossa) spariglia invece ogni canone di solidarismo ruffiano, incistandosi sul limitare sdrucciolo dei generi psicanalitico e drammatico. In altre parole: difficile empatizzare del tutto con l’universo nevrotico primo-morettiano - i dolci, il pallone, le scarpe, la Nutellla, la violenza verbale, i savonarolismi -. La sua facies autoriale-attoriale è inoltre quasi sempre austera, antinomica alle mossette prossemiche di Sordi e Manfredi. E’ sofferente, professorale, e qualora diventi narcisisticamente infantile, riconducibile alle smorfie del bambino antipatico.
Insomma: all’interno della storia del cinema italiano la commedia (presunta) di Nanni Moretti viene a costituire una storia a sé. Un unicum solipsistico. Autobiografico. Privato, e dunque autenticamente politico. Nanni Moretti non patteggia col pubblico (“Pubblico di merda” grida, anzi, il regista Apicella in Sogni d’oro), meno che mai con la medietà dell’italiano-tipo, e ancora meno con il genere commedia che dell’italiano tipo ha fatto più che altro una macchietta inoffensiva (“Te lo meriti Alberto Sordi!”, furoreggia in un bar ancora il regista Apicella).
Il cinema di Nanni Moretti dei tardi Settanta e dei pieni anni Ottanta è autarchico (nomen omen, sin dalla pellicola d’esordio), deontologico, difforme, autenticamente impegnato, surreale, ostico, sui generis, divisivo, e per questo osannato/osteggiato (tertium non datur) nel corso del tempo da critici e spettatori. L’analiticamente impeccabile Fabio Benincasa appartiene alla categoria dei fautori dei topoi morettiani, e a piena ragione. Lo comprova il suo ultimo saggio che col pretesto dei freschi settant’anni del regista – Nanni Settanta. Fare cose, vedere gente: guida ragionata al morettismo (Bordeaux, 2024) –, ne attraversa lo specifico, individuandone le lungimiranze e quella coerenza tematico-formale che fa di un regista cinematografico un autore.
Dalle ire funeste delle prime sei pellicole, alla fase più compensata post-apicelliana, fino alla funzionale mise en abyme de Il sol dell’avvenire, il dover essere e la crisi che attanagliano il protagonista-unico del cinema di Nanni Moretti (lui stesso attraverso i sacri furori di Michele Apicella, e lui stesso parcellizzato nelle diverse recitazioni accorate di Silvio Orlando, e in quelle nevrotiche di Margherita Buy) si (im)pongono come le direttive attraverso le quali fissarne la teleologia.
C’è anche da dire che le pagine di questo minuzioso lavoro di Benincasa (che ho imparato ad apprezzare sin dal precedente Fra gioco e massacro. Vita sulla Terra dopo Ennio Flaiano) non abbondano di peana fine a sé stessi. Le tesi analitiche di Fabio Benincasa risultano cioè inconfutabili, oggettive al punto che se questo libro finisse in mano a qualche indefesso detrattore di Moretti, avrebbe di che riflettere, se non di che ricredersi.
Indubbiamente in tanti amano il suo cinema (di Moretti, ndr), altrettanti amano parlarne male, pur dovendone riconoscere obtorto collo il successo, anzi forse proprio per questo. Inoltre, il cinema di Moretti e l’autore Nanni Moretti sono sovrapponibili in un discorso generale. Dato che il regista è presente in un modo o nell’altro come attore in tutti i suoi film ciò rende l’amore e l’odio ancor di più viscerale e personale (…) Nanni Moretti è diventato uno schermo sul quale l’opinione pubblica proietta pregi e difetti della nostra società: egoismo, genialità, autorefenzialità, distacco ironico, rigore critico, antipatia all’ultimo stadio. E’ un caso da manuale di proiezione profonda e un giorno il suo successo (nonché l’odio che suscita) verrà spiegato con la psicoanalisi.
A seguito di un’ampia prima parte ("Nanni Settanta", pagg. 17-146), in cui tanto la filmografia quanto l’influenza pubblica e politica di Moretti sono accuratamente passate al setaccio dell’analisi, il lavoro di Benincasa si sofferma proprio sulle proiezioni sociali, evidenziate dall’assunzione collettiva dei diversi tormentoni linguistici presenti nei suoi film. Battute simil-aforistiche che al pari di quella storica della Bergman in Casablanca (“Suonala ancora Sam”) sono andate a incistarsi nella memoria di gruppo del Paese. L’elenco è ampio, e nel libro peraltro ampiamente commentato: dall’aleatoria “Faccio cose, vedo gente”, affidata alla bocca dell’amica fricchettona di Michele in Ecce Bombo, a quella pronunciata, sempre in Ecce Bombo, da Michele, amleticamente indeciso se recarsi a una festa:
“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.
E ancora: dal diktat abbaiato in faccia a una giornalista dall’onorevole Apicella in Palombella rossa: “Le parole sono importanti. Chi parla male pensa male!”, al meta-significativo “Continuiamo così, facciamoci del male”, indirizzato in Bianca dall’ossessivo professore Apicella a un commensale che ignorava, sin lì, le delizie di un mont-blanc. Potremmo continuare ancora per diverse pagine: il saggio di Fabio Benincasa lo fa, individuando per ciascuna battuta le meta-significazioni possibili e plausibili, antropologiche e psicoanalitiche, in primo e secondo luogo.
Benedetto dalla prefazione di Alberto Abruzzese, Nanni settanta indaga dunque in modo impeccabile lo specifico di Moretti, e in parallelo il quadro clinico di una nazione mancata, perennemente scissa tra farsa e tragedia. L’Italia irrisolta e nevrotizzante di cui Nanni Moretti è stato il narratore più sincero, lucido e originale.
“Anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone” (Caro Diario).
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