Quinta stagione
- Autore: Franco Marcoaldi
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2020
Franco Marcoaldi (eclettico autore di versi e narrativa, di libri di viaggio, di testi teatrali, musicali e televisivi, e inoltre consulente editoriale e collaboratore de "La Repubblica"), ha da poco firmato per la Collezione di Poesia einaudiana il suo nono volume, un monologo drammatico in versi, intitolato Quinta stagione (ottobre 2020).
La stagione che si apre al poeta, alle soglie dei sessantacinque anni, è "inedita, nuova, sconosciuta", si offre come generosa e vivace sorpresa:
"tempo / indefinito, penoso e scriteriato / – sole nell’uragano, arcobaleno al buio, / sete dell’affogato".
Eccolo dunque sopraggiunto, il momento ineludibile e severamente censorio in cui si tirano le somme dell’esistenza intera, in cui "eccesso" di parole e "afasia" si rincorrono e sovrastano, resi entrambi urgenti dall’esigenza di giustificare o di "sorvolare", come consiglia l’autore.
Il "teatro degli inganni", che vede ogni essere umano protagonista della recita imposta dai copioni del vivere sociale, si trasforma in un "teatro interiore", magari ugualmente confuso e cacofonico, ma perlomeno più assorto, e nelle aspirazioni, più sincero.
“Ora però ti è offerta l’occasione / di raccoglierti e fermarti, / di osservare e di osservarti”.
Il poemetto, scandito in dodici sezioni, si distende in forme gradevolmente colloquiali, con una voce narrante e interrogante che interloquisce con altri invisibili personaggi, o con se stesso, in un vivace scambio delle parti, dove toni meditativi si alternano ad accenti più disinvolti e maliziosi, cadenze musicali a impostazioni più rigidamente prosastiche. Come succede in una conversazione telefonica, o in un informale incontro tra conoscenti, oppure – al contrario – in un ovattato confessionale, in un’equilibrata seduta psicanalitica. Quando a bassa voce si ammette che all’"euforia" spesso subentrano "stanchezza" e "pesantezza", accorgendosi che “È tutto fuori asse, è tutto / fuori tempo”, perché dopo la primavera e l’estate vissute con entusiastica partecipazione, adesso ci si deve accontentare di un autunno piovoso, di un infreddolito inverno:
“Ah, com’è difficile imparare / a tramontare”.
Che se poi nel giorno dei morti o a Natale spuntano improvvise fioriture di rose, riprendono vigore pomodori rinsecchiti, ecco che lo scherzo fuori stagione assume le sembianze di una crudele provocazione.
Le metafore utilizzate da Marcoaldi nella sua riflessione sul tempo che scorre inesorabile, sull’età che avanza appaiono al lettore curiose e leggere, svagate nella loro imprevista allusività (l’angelo spiumato, i bulloni allentati, il mantice affannoso della fisarmonica, la corona di perle sgranata…).
Con excursus recriminatori sulla politica, la finanza, la burocrazia, l’inquinamento, l’onnipresenza onnivora dei media, e più in generale sugli uomini di potere e sugli ignavi che non si ribellano, l’autore rivela una sua natura di esasperato corrector morum, nauseato dall’oggi, risentito verso ieri, scettico sul domani.
Il vortice di attività di successo in cui ha investito le proprie energie giovanili, e le aspirazioni della maturità, si manifesta nella sua fatua inconsistenza: “una sceneggiata / che ora scopro falsa e vuota”. Dei tanti amici persi per strada, dei postulanti soccorsi e ingrati, degli amori banali e molesti, rimane poco o niente:
"E allora: davvero vuoi sapere / quante sono le creature / per le quali piangerò / lacrime sincere il giorno / della loro morte? Cinque, sei, sette. / Non di più".
E riguardo al suo futuro individuale, e a quello che aspetta l’umanità tutta, Franco Marcoaldi mantiene scarse illusioni, in questa Quinta stagione:
“Solo la danza e il canto ci possono aiutare”, “Ti prego, accontentati dei sensi, / accontentati dell’occhio”.
Oltre la materia di cui siamo fatti, oltre la bellezza gratuita che ci viene quotidianamente offerta, e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo, ci resta appena “la nostra comica e dolente // esistenziale passeggiata / nello spazio sublunare”.
Tra rassegnazione, malinconia e vaghissime attese, il poeta conclude il suo monologo in versi, in un teatro semi-deserto, davanti a un pubblico distratto, che non sa più applaudire.
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Solo un pensiero: Essere non pù giovani è un’arte difficile. E’ hard.