Il 25 maggio 1895 fu una data spartiacque nella vita di Oscar Wilde, che segnò l’inizio del suo inarrestabile declino: la fine del processo che portò alla sua condanna in via definitiva a due anni di carcere e lavori forzati. L’accusa era quella di “gross public indecency”, ovvero di sodomia e volgare indecenza, un’elegante perifrasi borghese per indicare in modo velato il reato per cui effettivamente Wilde era punito: quello di “omosessualità”.
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Il processo contro Oscar Wilde destò parecchio scalpore nell’Inghilterra vittoriana, perché coinvolse alcuni dei più illustri esponenti della società londinese di fine Ottocento. All’epoca Wilde era già un romanziere conosciuto, noto soprattutto per Il ritratto di Dorian Gray (che aveva già sollevato parecchie accuse di immoralità) e la commedia L’importanza di chiamarsi Ernesto che aveva debuttato con successo nei teatri inglesi proprio nel febbraio di quello stesso anno.
Quel 25 maggio giungeva il terribile verdetto di un processo durato oltre un mese e mezzo. La sentenza inattesa avrebbe decretato la rovina, pubblica e morale, di Wilde.
La situazione, in realtà, si era ribaltata improvvisamente: lo scrittore si era trovato catapultato dal banco della difesa a quello dell’accusa senza possibilità di appello.
Scopriamo più nel dettaglio cosa accadde quel fatidico 25 maggio 1895 e a quali colpe dovette rispondere lo scrittore inglese.
La storia del processo a Oscar Wilde
Le accuse di immoralità avevano iniziato a piovere addosso a Oscar Wilde sin dal principio della sua carriera letteraria. Il carattere velatamente erotico di alcune sue poesie non era gradito ai critici, né ad alcuni lettori. Messo alle strette lo scrittore aveva optato per un matrimonio di interesse con una donna di nome Constance Lloyd. Dall’unione tra i due nasceranno due figli, ma comunque Wilde non era affatto adatto al ruolo di padre e consorte. Continuava a vivere secondo le sue regole, con i creditori alle calcagna. Inoltre non viveva con la moglie ma in un albergo, fatto che iniziò a destare parecchio scandalo e a far discutere i benpensanti. Si raccontava che nella sua camera d’albergo Wilde incontrasse parecchi “amici” e “ammiratori”.
Tutto comunque si sarebbe fermato alle chiacchiere, se non ci fossero stati di mezzo i sentimenti. Nel 1891 lo scrittore si innamorò perdutamente di un giovane nobile, Lord Alfred Douglas, detto “Bosie”. La relazione tra i due proseguì per quattro anni, finché il marchese di Queensberry decise di intervenire di persona per allontanare il figlio dall’influenza negativa di Wilde. Ormai la passione di Wilde per Bosie era di dominio pubblico, i due apparivano insieme a serate letterarie, cene e ricevimenti; la gente sapeva e taceva, perché Oscar Wilde era un personaggio pubblico, i suoi libri vendevano migliaia di copie. Stanco di quella situazione dannosa per la reputazione della famiglia, il marchese avviò una vera e propria persecuzione nei confronti dello scrittore.
Alla prima londinese de L’importanza di chiamarsi Ernesto il marchese lasciò un biglietto infamante che recitava così:
A Oscar Wilde che posa a sodomita.
Ferito nel profondo del suo orgoglio Oscar Wilde decise di intentare l’accusa di diffamazione e, dunque, di trascinare Queensberry in tribunale. Del resto, c’era la prova provata, nessuno avrebbe potuto contestare il contenuto di quel biglietto scritto nero su bianco.
Fu la decisione peggiore della sua vita.
Il processo a Oscar Wilde: dall’accusa alla difesa
Il processo ebbe ufficialmente inizio il 3 aprile 1865 all’Old Bailey di Londra e si rivelò, sin dal principio, una causa persa. L’accusa trovò diversi testimoni pronti ad affermare che l’omosessualità di Wilde non era affatto presunta, ma riconosciuta come un dato di fatto. Lo scrittore si trovò messo all’angolo, come un pugile alla fine dei combattimenti, e cercò di abbandonare la causa. Ormai era troppo tardi, fu predisposto nei suoi confronti un mandato di cattura per “atti osceni” e il processo venne completamente ribaltato: stavolta Oscar Wilde si trovava dall’altro lato dello scranno, seduto al banco degli imputati. Il successivo 5 aprile il marchese Queensbery venne assolto da tutte le accuse, poiché la giuria ritenne confermato quanto aveva scritto nel biglietto.
Fu l’inizio di una sentenza interminabile che venne raccontata ogni giorno con delle vignette satiriche pubblicate sul Police News. La società vittoriana si scagliava con fervore contro Wilde, facendo dello stravagante autore il capro espiatorio di tutte le colpe, vere o presunte.
Lo scrittore fu processato direttamente dal vice procuratore generale, Frank Lockwood.
La macchina dello scandalo si era messa in moto e per Oscar Wilde ormai non c’era più scampo. La folla reclamava la sua condanna, come un tempo il popolo insorgeva per chiedere la ghigliottina. Erano assetati di sangue, fomentati dalle accuse messe in moto dalla campagna pubblica contro lo scrittore, volevano la sua testa a ogni costo.
Sino all’ultimo lo scrittore insistette nel proclamarsi “non colpevole”; ma le accuse a suo carico si moltiplicarono a velocità esorbitante. C’erano già tredici testimoni e persino alcuni passi delle opere più celebri dello scrittore, come Il ritratto di Dorian Gray, furono portati agli atti e utilizzati come prove a suo carico.
In particolare Wilde fu interpellato a proposito di un verso scritto dal suo amante, Sir Alfred Douglas, che recitava così:
Cos’è l’amore che non osa pronunciare il suo nome?
A quell’intimazione, dopo aver riflettuto un momento, Wilde rispose con intelligenza:
Amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare... Non c’è nulla di innaturale in ciò.
Oscar Wilde: la condanna di uno scrittore
La risposta di Wilde fu accolta da un applauso da parte del pubblico, ma gli attirò l’ira funesta del procuratore Lockwood sempre più deciso a inchiodare lo scrittore alla sua colpa. Per il procuratore quella frase rappresentava di per sé una prova della sua colpevolezza.
La requisitoria di Lockwood sarebbe passata alla storia: nelle sue lettere Wilde la avrebbe in seguito paragonata a un “passo di Tacito, o di Dante”.
Il 25 maggio 1865 fu annunciato il verdetto di colpevolezza. Dalla galleria si levò un grido: “Vergogna!” e sul volto di Oscar Wilde si dipinse un’espressione di terrore: aveva capito quale sarebbe stato il suo destino.
Il drammaturgo britannico Hall Caine avrebbe definito quel verdetto come “la tragedia più orribile di tutta la storia della letteratura.”
Il giudice Alfred Willis prima di emettere la sentenza avrebbe dichiarato con rammarico:
È il caso peggiore che mi sia mai capitato. Si tratta della punizione più severa prevista dalla legge. Secondo la mia opinione è del tutto inadeguata per un caso come questo.
A Oscar Wilde fu inflitto il massimo della pena: due anni di carcere e lavori forzati. Fu l’inizio di un periodo durissimo per lo scrittore che vide, come conseguenza del processo, distrutta anche la sua reputazione e la propria carriera letteraria. La moglie e i figli decisero di cambiare cognome per prendere le distanze da quello scandalo e i giornali inglesi decantarono la “fine dell’estetismo”, segnando una rottura definitiva anche tra Wilde e il mondo letterario.
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L’esperienza del carcere di Reading lasciò in Wilde una ferita indelebile, morale e fisica. Solo una speranza lo salvò da quell’abisso, il pensiero dell’amato Bosie, nel quale lo scrittore riponeva una fede assoluta e cieca. Proprio nella cella del carcere l’autore scrisse alcune delle sue pagine più belle, immortalate nella colossale lettera del De Profundis, che sarebbe diventata il suo testamento.
Nel corso dei due anni di lavori forzati lo scrittore si ferì gravemente all’orecchio destro. Quell’infezione, probabilmente malcurata, lo avrebbe infine condotto alla morte per una grave forma di otite.
Una volta uscito di prigione, nel settembre 1897, Wilde decise di fuggire in Francia dove poté incontrare, per un’ultima volta, l’amato Bosie. Visse nella povertà assoluta, trascinandosi da un albergo all’altro, spesso ospite di amici. Dopo l’esperienza del carcere, e la composizione della Ballata dal carcere di Reading, Oscar Wilde non riuscì più a scrivere un rigo. Diceva che aveva scoperto che la vita non poteva essere scritta, ma solamente vissuta.
Ho scritto quando non conoscevo la vita. Ora che so il senso della vita, non ho più niente da scrivere. La vita non può essere scritta: la vita può essere soltanto vissuta.
Un’affermazione quasi paradossale se ora si pensa sia stata proferita proprio dalle labbra di uno dei maggiori scrittori inglesi. Oscar Wilde aveva consacrato la sua esistenza stessa alla letteratura per poi, in punto di morte, giungere all’amara conclusione che ogni parola da lui scritta era stata vana, come un solco tracciato nell’acqua.
Il grande romanziere sarebbe morto a Parigi, il 30 novembre del 1900, all’età di soli 46 anni.
Sono i suoi libri oggi a conservarne l’eredità, segno tangibile che in realtà la vita la si può anche scrivere, a volte, per farla durare e darle spazio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Processo a Oscar Wilde: la storia della condanna di uno scrittore
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