Uno dei testi più amaramente sconfortanti dedicato all’Italia si intitola Alla mia nazione e l’autore è Pier Paolo Pasolini.
Non a caso a tale proposito il critico letterario Romano Luperini ha scritto:
Il privilegio di un tempo, la coscienza, si rovescia in condanna, in una mancanza di coscienza che decreta l’inferiorità e la vergogna italiana nel quadro internazionale.
Il contesto in cui Pasolini scrive segna difatti la crisi della funzione dell’intellettuale e fa sorgere il bisogno di manifestare la più rapida e graffiante condizione di umor nero, anzi nerissimo, alla maniera dantesca più efficace.
Il componimento fa parte della sezione Nuovi epigrammi (1958-1959), raccolti ne La religione del mio tempo.
Scopriamone testo e analisi.
“Alla mia nazione” di Pier Paolo Pasolini: testo
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
“Alla mia nazione” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento
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Siamo nella tematica dell’indignazione che si oppone alle ragioni del potere o del “Palazzo”, mentre la scelta del termine “Nazione” orgogliosamente esprime un’appartenenza civile e politica che, lungi dal risolversi in un retorico patriottismo, è coscienza critica del presente.
Vi è un senso di smarrimento: quello di una patria ormai perduta.
Nei primi versi il poeta dice ciò che la nostra nazione non è rispetto alla sua identità europea per poi inoltrarsi in una sanguigna denuncia dalla forza contestatrice ed etica.
La feroce e radicale invettiva, espressa da una mente vigile e critica, viene rivolta all’Italia borghese che si stava affermando sul finire degli Cinquanta, alla vigilia del boom economico.
Libera da ogni freno, questa poesia, che ha il gusto impertinente del lessico popolare, dissacra personaggi e comportamenti rappresentati in modo sconcertante. Ci si trova dinanzi a un’orgia espressionistica: da qui la preferenza che l’astuzia del poeta affida a un elenco che suscita un senso di pena e di nausea. Ci si potrebbe riferire a un “racconto-registrazione” di non consenso e di irrisione pressoché satirica.
A fare le spesse di un dominio eversivo è la nazione tramandata da epoche, culture e civiltà. La sua inesistenza è ormai l’effetto del mostro, che, quale espressione del ceto dominante (“milioni di piccoli borghesi come milioni di porci”), invade e occupa tutto il territorio.
Diciamo per inciso che, nel 1961, in “Vie nuove” Pasolini scriverà:
I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia “Alla mia nazione” di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi – nei casi migliori – perché sono un poeta, cioè un matto. […] Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante, benpensante, ipocrita e disumana.
Sferzante dunque l’accusa dello stato fallimentare. La poesia è così destinata a travolgere una determinata classe di sudditi e di tiranni che Pasolini, puntando sulla patologia del negativo, ritrae con la sua calda rabbia popolare, con un dire diretto, tanto efficace da diventare “immagine-cronaca”.
In sostanza, i versi di Pasolini si collocano tra coscienza infelice e ideologia del rifiuto, tra sdegno e febbrile tensione liberatoria.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Alla mia nazione”: la poesia per l’Italia di Pier Paolo Pasolini
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