Splendido componimento Il glicine per lucida forza espressiva. Forse è l’opera più polemica e piena di rabbia della raccolta La religione del mio tempo di Pier Paolo Pasolini; sicuramente esprime la disillusione dell’immenso amore che il poeta nutre per la realtà.
C’è in lui la consapevolezza di una svolta irrimediabile nel mondo occidentale accompagnata dalla profonda crisi che lo coinvolge come persona e come poeta.
Pasolini avverte un persistente malessere causato da un legame indissolubile: tra la distruzione della civiltà del mondo popolare, a seguito del cosiddetto boom economico e la crisi dell’intellettuale, nonché della funzione poetica.
“Il glicine” di Pier Paolo Pasolini: testo e analisi
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L’apertura è segnata dalla domanda “Ero morto?”.
Sente il poeta di non esistere più mentre si trova in quartiere della Roma borghese
E ora eccomi qui: ricopre il glicine / le rosee superfici / d’un quartiere ch’è tomba d’ogni passione, / agiato e anonimo, caldo / al sole d’aprile che lo decompone.
Vi sono glicini in gran quantità:
Spiccano / viola nel viola delle nuvole e dei viali.
Ed essi vengono percepiti come morti: “non sono vergini / alla vita, sono dei calchi funerei, / che imitano la barbarie del dire / senza ancora possedere / parola, puro viola sopra il verde… // Io ero morto, e intanto era aprile, / e il glicine era qui, a rifiorire.
L’io poetico con una scheggia in cuore si interroga e si percepisce con una coscienza “involuta”, perché qualcosa sta andando in rovina:
Questo fiore è segno, / nel mio intimo, del regno della caducità – della religiosa / caducità – nient’altro.
Rimane il presente senza consistenza: come arresto o meglio come un avanzare verso la morte. C’è la percezione del crollo sociale e il glicine ne è metafora: simbolo di ciò che è transeunte, gli reca una “gioia dolorosa” che nel pianto si risolve.
e, nel dolore di quel lilla quasi bianco / a esaltarci è la ragione del pianto.
Pasolini si sente vittima “d’una storia apocalittica”; gli pesa il senso di sconfitta e vorrebbe poter morire, non avendo più vitalità. Considera vana ogni volontà di capire, si sente stanco e incapace di sopportare ancora:
Qualcosa ha fatto allargare / l’abisso tra corpo e storia, m’ha indebolito, / inaridito, riaperto le ferite.
In cui sente di sprofondare è l’abisso che non può più essere colmato dalla parola di Marx: “Non si può mutar nulla” aveva avvertito Orwold Splengler. Da qui disperazione e rabbia: Euridice è perduta per sempre.
Dolcissimi i versi in cui, rivolgendosi al glicine, “suo gemello vegetale”, chiede se sia possibile amare senza sapere ciò che questo vuole dire.
La visionarietà gli fa dire:
Prepotente, feroce / rinasci, e di colpo, in una notte, copri / un’intera parete appena alzata, il muro / principesco d’un ocra / screpolato al nuovo sole che lo cuoce… // E basti tu, col tuo profumo, oscuro, / caduco rampicante, a farmi puro / di storia come un verme, come un monaco: / e non lo voglio, mi rivolto – arido / nella mia nuova rabbia, / puntellare lo scrostato intonaco / del mio nuovo edificio.
Il glicine fa dunque compiere al poeta un’opera di trasmutazione, riportandolo in un mondo prenatale di solo amore. Infine magnificamente si sofferma sulle nefaste conseguenze del distacco dall’ideologia.
Un valore senza valori ed è il vuoto che si spalanca davanti al suo sguardo e lo pietrifica:
Qualcosa ha fatto allargare / l’abisso tra corpo e storia, m’ha indebolito, / inaridito, riaperto le ferite… / un mostro senza storia / feroce della ferocia barbarica / che compie le sue persecuzioni / nella stampa libera, nei miti confessionali, / che brucia passioni, purezza, dolori [...] che non ha religione / se non quella d’imporne una legale / con le sue regole, che non ha amore / se non quello che vuole / tutti uguali, nel bene e nel male, / che non conosce pietà.
Nascendo, ha trovato il mostro della conquista che gli ha dato “un dolore glorioso” con l’illusione di un amore “unificante” che potesse trasformare il mondo e con la speranza della rivoluzione. Ora lo sconforto è assoluto.
Il mutamento, quello del consumismo, ha cambiato il popolo in “massa informe”, manovrato dal nuovo Capitale, mentre si è modificato il senso delle parole. Chi usa quelle antiche – la speranza - è considerato “invecchiato”:
Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, ora pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.
Non serve, per ringiovanire, questo
offeso angosciarsi, questo disperato
arrendersi! Chi non parla, è dimenticato.
Tu che brutale ritorni,
non ringiovanito, ma addirittura rinato,
furia della natura, dolcissima,
mi stronchi uomo già stroncato
da una serie di miserabili giorni,
ti sporgi sopra i miei riaperti abissi,
profumi vergine sul mio eclissi,
antica sensualità, disgregata, pietà
spaurita, desiderio di morte...
Ho perduto le forze;
non so più il senso della razionalità;
decaduta si insabbia
nella tua religiosa caducità
la mia vita, disperata che abbia
solo ferocia il mondo, la mia anima rabbia.
È il senso di decadenza a prendere il sopravvento, essendosi ormai la società costituita perché mossa dalla legge del profitto.
Ormai è la poesia della crisi, segnata dal “disperato arrendersi”, a prevalere anche se essa non serve alla rinascita. Sta qui l’ambivalenza dello stato d’animo del poeta: da un lato non vuole rinunciare al potere della parola; dall’altro, ben persuaso del suo ruolo marginale, avverte la fatica di vivere in giorni mancanti di prospettive.
Senza più forze, senza più la direzione della razionalità, la sua esistenza, disperata tanto per la ferocia del mondo, quanto per la propria rabbia, scompare nella religiosa caducità del glicine. Sicché, la parola paradossalmente sarà “l’essere del nulla”.
La profezia di Pasolini sembra essersi avverata nel post-moderno, la cui connotazione da Gianni Vattimo nel saggio La fine della modernità del 1985 è stata individuata nel venir meno del connubio di umanesimo e tecnologia.
Di “nichilismo compiuto” avevano preannunciato Nietzsche e Heidegger.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il glicine” di Pier Paolo Pasolini: la profezia del capitalismo in poesia
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