Chi era la donna misteriosa cui Leopardi dedicò una celebre lirica? Alla sua donna è un canto scritto da Giacomo Leopardi nel settembre del 1823, quando il poeta aveva soli venticinque anni. Tuttora è considerato uno dei più criptici canti leopardiani, si conclude con una dichiarazione in cui il poeta di Recanati spera che la destinataria riceva l’inno “d’ignoto amante”, dunque di un amante sconosciuto, quale Leopardi si definiva.
In realtà il canto Alla sua donna non era dedicato a una persona in carne e ossa, ma a un’allegoria e conteneva in sintesi tutto il pensiero poetico e filosofico del “giovane favoloso”.
“Cara beltà” è il principio formidabile e classico dell’inno d’amore di Leopardi, che non è rivolto a nessuna donna di questo mondo, ma alla Bellezza stessa. Il poeta dell’Infinito ama un ideale concretizzando, di fatto, la sua teoria del piacere: l’uomo nell’arco della propria vita ricerca sempre la soddisfazione di un piacere infinito e illimitato, nonostante nella propria limitatezza umana non abbia la possibilità di soddisfarlo interamente. Nemmeno il conseguimento del piacere - e quindi dell’oggetto amato, osserva Leopardi nella sua sterminata trattativa contenuta nello Zibaldone, placa il desiderio stesso perché il conseguimento di un piacere è circoscritto, limitato nel tempo e lascia un vuoto nell’anima. Ne Il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, contenuto nelle Operette morali, è presente la seguente affermazione:
Pensare la donna amata è più dolce che vederla: presente, ella appare una donna; lontana, una dea.
Il destinatario dell’amore dunque non può essere che una donna straordinaria, di sembianza non umana, una donna “diva” simile alle muse di omerica memoria. Alla sua donna di Leopardi è un inno alla Bellezza che si conclude con un’invocazione non lontana dal farsi accorata preghiera, rivolta a Dio, o a chi per lui.
Scopriamo testo, analisi, parafrasi del canto leopardiano.
“Alla sua donna” di Giacomo Leopardi: testo e parafrasi
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Cara bellezza, che mi infondi amore da lontano. o nascondendo il viso, tranne quando, come ombra divina, mi colpisci il cuore in sogno. O in campagna, quando il giorno e il riso di gioia della natura brilla più bello.
Forse tu hai reso innocente e lieto il periodo dell’Età dell’Oro e ora, anima leggera, voli tra la gente? Oppure la sorte avara ti nasconde a noi e ti concede a coloro che verranno?
Viva mirarti omai
Nulla speme m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Non ho più speranza di ammirarti viva, ormai. Se non quando il mio spirito, nudo e solo, verrà accolto per una via nuova in una dimora sconosciuta.
Fin dal principio della mia vita io mi immaginai te, come una guida incerta e scura, in questo arido deserto. Ma non c’è nulla sulla terra che ti somigli; e se anche qualcuna ti assomigliasse nel viso, negli atti, nella conversazione, sarebbe molto meno bella di te.
Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Fra tanto dolore, quale il destino prescisse alla specie umana, se qualcuno ti amasse vera - e bella come ti dipinge il mio pensiero - allora davvero la vita su questa terra sarebbe beata. E io vedo chiaramente come l’amore per te mi porterebbe a conseguire gioia e virtù. Ora il cielo non concede alcun conforto ai nostri affanni e con te la vita mortale sarebbe simile al Paradiso.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Nella valle, dove risuona il canto del contadino che si piega alla sua fatica quotidiana, io mi siedo e lamento le illusioni della gioventù che ancora non mi abbandonano. E proprio sui colli, dove ricordo e piango i miei desideri perduti, la speranza smarrita, pensando a te, ecco che sento risvegliarsi dei palpiti di vita. Se solo potessi conservare quell’immagine divina in questo secolo oscuro, in questo periodo scellerato, di quell’immagine di vera bellezza che mi è stata tolta io mi appago.
Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.
Se tu sei una delle eterne idee cui Dio non consente di tradursi in forme sensibili e sperimentare così il dolore della vita umana, costretta nelle spoglie mortali. E se un altro mondo, tra sfere celesti e infiniti luoghi, ti accoglie, e una stella più brillante del sole ti illumina, e tu respiri un’aria più serena di quella terrena, dove gli anni sono brevi e infelici, allora accogli il canto di questo amante sconosciuto.
“Alla sua donna” di Giacomo Leopardi: analisi e commento
A soli venticinque anni, nel 1823, Giacomo Leopardi componeva già un canto che costituiva un compendio della sua poetica, molto prima dell’Infinito (1826).
In una nota al testo, composta in fase di redazione, Leopardi definiva Alla sua donna in questi termini:
“Uno di que’ fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli”
Un simile canto alla Bellezza dunque poteva essere scritto soltanto da un giovane Leopardi, ancora vicino al proprio “giovanile errore” (ripreso con riferimento a Petrarca in Voi ch’ascoltaste in rime sparse il suono) e dunque al mondo delle illusioni. Ma la visione espressa in questo canto è anche accostabile a un Leopardi più maturo, incapace di vivere amori terreni e portato a preferire sempre - nella ricerca del piacere - un’immagine incerta e indeterminata, proprio come la divina Beltà che, al principio della poesia, nasconde il viso. Le fanciulle cui sono dedicate le poesie giovanili, le popolane recanatesi Silvia e Nerina, non traducono questo ideale celeste e inafferrabile di bellezza, entrambe tuttavia sono inghirlandate e benedette dalla morte, quindi irraggiungibili. La fanciulle in carne e ossa cantate dal poeta di Recanati sono in realtà fantasmi, vengono nobilitate dalla morte. La tensione verso l’irraggiungibile in Leopardi è una costante e questo canto, Alla sua donna, la esemplifica.
Nei versi troviamo ben espresso il dualismo platonico tra Mondo Sensibile e Mondo delle Idee: la donna amata non appartiene al mondo sensibile delle forme, al gioco fatuo delle apparenze, ma custodita in una sorta di inaccessibile Iperuranio, come viene rivelato negli ultimi versi. In questo la donna incorporea cantata da Leopardi non è poi molto diversa dalla Beatrice che Dante incontra nel Paradiso della Divina Commedia: una donna specchio di virtù, fatta di luce, che splende in un eterno sorriso e anticipa l’epifania finale. Anche nel Canto di Leopardi è presente una sorta di epifania, ci viene rivelata nell’invocazione finale che diventa una specie di preghiera: “Se dell’eterne idee/ L’una sei tu”. L’autore dà voce al suo bisogno d’assoluto, lo traduce in una visione.
L’amore ideologico inteso come rifugio qui diventa qualcosa di molto più grande, si specchia e riflette in un sentire universale: comprendiamo soltanto alla fine che ciò che Giacomo Leopardi sta cantando è l’amore in sé, l’amore infinito per tutte le cose che non può che appartenere a un ideale Creatore del mondo o, forse, a una Creatrice.
Ed è questo, in fondo, ciò che ci commuove della conclusione solenne del canto - che molti potrebbero giudicare iperbolica: Giacomo Leopardi non sta professando l’amore per una creatura né reale né immaginaria, ma l’amore assoluto che canta nel cuore di ogni uomo, l’amore per la Bellezza che è anche amore per la Vita, qualcosa di infinito che appartiene a tutti, malgrado la nostra drammatica piccolezza mortale. “L’ignoto amante” che firma la poesia da anonimo si fa specchio del lettore indeterminato che si accosta ai versi: in fondo è un uomo, nient’altro che un uomo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Alla sua donna”: analisi della poesia più incompresa di Leopardi
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