Ci sono scrittrici che si identificano completamente con il loro personaggio, vero o inventato che sia. È accaduto, ad esempio, a Marguerite Yourcenar con l’imperatore Adriano, divenuto attraverso le Memorie suo formidabile alter ego; a Maria Bellonci con Isabella d’Este in Rinascimento privato (1986); l’identico prodigio si è compiuto con Anna Banti e la sua Artemisia (1947). Difficile dire dove si interrompa l’autobiografia dell’autrice e dove inizi il vissuto del personaggio, sono due storie che confluiscono come i due rami di un fiume in una stessa foce, si trasfondono l’una nell’altra, si corrispondono come i riflessi in uno specchio.
Così Anna Banti è diventata Artemisia e viceversa, due nomi che appaiono inscindibili come in una segreta sorellanza. Nel personaggio della pittrice seicentesca svanisce l’ombra di Lucia Lopresti, vero nome della scrittrice toscana, e si insinua invece l’anima di Anna Banti, l’altra, il nome rubato alla “signora velata di bianco” conosciuta nell’infanzia che nel tempo era divenuta metafora dell’immaginazione. Anna Banti non esiste; è una maschera, un nom de plume, un rifugio in cui nascondere quel vezzo di scrittrice di cui Lucia non può fare a meno, ma in fondo un po’ se ne vergogna. Lei è Artemisia, è il suo personaggio, a cui ha prestato la voce, la coscienza, le pieghe più nascoste dei ricordi. L’immagine della scrittrice sparisce e si annulla, la sua vita diventa quella di Artemisia in un mescolarsi di autobiografia e biografia in cui niente corrisponde perfettamente al vero perché, come specifica la stessa autrice, “non si tratta di un romanzo storico”. Per i lettori tuttavia la realtà è tutta in quelle pagine dove l’esistenza di Artemisia Gentileschi si trasfonde in quella di Anna Banti in un connubio irresistibile al punto che diventa impossibile scindere la scrittrice dal personaggio, la letteratura dalla storia. Anna e Artemisia sembrano incontrarsi su una soglia misteriosa, al confine tra mondo vero e mondo immaginato, in quel punto si stringono la mano e reciprocamente si salvano grazie al potere dell’arte, l’unica forza capace di attraversare l’enorme vuoto dei secoli.
Chi era Anna Banti
Anna Banti, l’abbiamo detto, non esiste. Esiste invece Lucia Lopresti, nata nel capoluogo toscano nel 1895 e morta nel 1985, due date specchio che racchiudono una vita. Lucia bambina che cresce in Toscana, figlia di un avvocato delle Ferrovie, e viene incoraggiata dal padre a intraprendere gli studi umanistici. Lucia cresce e, dopo la maturità classica, si laurea in Lettere all’università La Sapienza con una tesi sullo scrittore d’arte secentesco Marco Boschini. Un estratto della tesi viene poi pubblicato sulla rivista L’Arte ed elogiato da Benedetto Croce in persona.
La storia dell’arte è la grande passione di Lucia: lei è curiosa, attenta, ha uno sguardo perspicace, ed è disposta a fare chilometri pur di vedere dal vivo i dipinti. Nel 1924 sposa il critico d’arte Roberto Longhi, che era stato suo insegnante al Liceo Tasso, insieme fondano e dirigono la rivista Paragone. Dopo alcuni anni Lucia vive una crisi, sente che il suo modo di leggere “l’opera figurativa è mutato”, sente di dare più credito alla sua immaginazione che al suo contributo di studiosa, decide quindi di prendere le distanze dalla storia dell’arte. Ne concluse che il marito, Longhi, era un genio della critica dell’arte, mentre lei sarebbe rimasta sempre soltanto una “normale storica dell’arte”. Superato il travaglio interiore decide di dare voce alla sua immaginazione, di permetterle di prendere il sopravvento. Scrive il primo racconto Barbara e la morte (1930). Nasce così colei che tutti noi conosciamo: Lucia Lopresti diventa Anna Banti. Il nom de plume da scrittrice lo ruba a una parente della famiglia della madre, una signora vestita di bianco che l’aveva incuriosita parecchio da bambina, tanto da voler assomigliarle. Aveva usato lo stesso nome, Anna Banti, firmandosi segretamente in calce a una lettera scritta a Roberto Longhi da ragazza. Con questa nuova identità ora sembra emanciparsi dal marito - Longhi era un cognome troppo riconoscibile - e inventare per sé una nuova vocazione, che fosse soltanto sua.
Il nome, del resto, ce lo facciamo noi, sostenne anni dopo in un’intervista con Sandra Petrignani:
Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita.
Nonostante la sua nuova attività da scrittrice non avrebbe mai abbandonato la sua prima passione: la storia dell’arte. Semplicemente, con il nome di Anna Banti, inventò una storia dell’arte nuova, una storia dell’arte narrativa in cui inventa una lingua in grado di raccontare la pittura, il suo romanzo capolavoro Artemisia ne rappresenta la più alta testimonianza.
Anna Banti e la scrittura di Artemisia
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L’idea di narrare il personaggio di Artemisia maturò in Anna Banti nel 1939, lo stesso anno in cui furono pubblicati gli atti del processo ad Agostino Tassi, l’aggressore della pittrice. Colei che ormai era diventata Anna Banti decise di fare un viaggio a Londra per mettersi sulle tracce della sua “personaggia” e del padre di lei, Orazio Gentileschi. Con ogni probabilità in questo stesso periodo inizia a scrivere la prima stesura di Artemisia, che in origine è una biografia. Quel primo racconto, probabilmente incompiuto, andò perduto tra i bombardamenti del 1944. Finito chissà dove, sotto le macerie di una città ormai irriconoscibile. Anna Banti non si perde d’animo e riprende la sua storia daccapo, ma questa volta la reinventa: scrive un romanzo in cui gli aneddoti non corrispondono più alla vita reale della pittrice del Seicento. Dall’Italia sconvolta dalla guerra Anna Banti scrive della sua Artemisia, la insegue con l’immaginazione attraverso Roma, Firenze, Napoli sino a Londra, si rifugia in quel mondo “altro” che la chiama da imperscrutabili lontananze. Talvolta si nasconde dietro lo schermo fittizio della terza persona, in altri momenti emerge prepotentemente tra le pagine dicendo “Io”. La sua stessa scrittura è una continua reinvenzione della forma romanzo. Artemisia non è un saggio storico né di storia dell’arte, non è la biografia di una pittrice del Seicento ma neppure l’autobiografia della sua autrice, è un’opera difficile da definire e che non vuole essere classificata.
Nell’attacco del romanzo Anna Banti fa riferimento al manoscritto perduto, ma il suo tono è talmente accorato che capiamo subito che la scrittrice non sta piangendo il racconto smarrito, ma il suo stesso personaggio, che è anche una parte di sé.
Sotto le macerie di casa mia ho perduto Artemisia, la mia compagna di tre secoli fa, che respirava adagio, coricata da me su cento pagine di scritto.
Nella narrazione di Artemisia, Banti ricompone anche la propria storia, sembra dare un senso alla distruzione che la circonda. La tensione narrativa creata dalla Banti autrice si basa essenzialmente sul procedimento retorico dell’èkphrasis, ovvero la descrizione verbale di un’opera d’arte. In questo dimostra un autentico talento: le sue non sono semplici descrizioni, attraverso le parole trasforma le immagini in vibrazioni tattili, vive, luminose. Ma non è solo l’uso di questa peculiare tecnica di scrittura (poi definita uno “stile descrittivo pittorico”) a rendere lo strano romanzo di Anna Banti un capolavoro. Il critico Emilio Cecchi, che ne lesse un primo estratto, ne lodò lo stile - simile a Orlando della Woolf - e subito colse un fatto interessantissimo, ovvero che si trattava di una biografia appena mascherata. Un anno dopo il poeta Attilio Bertolucci in una recensione lo definirà: “un diario aperto a due”, colse quindi che le protagoniste erano in continuo dialogo, la scrittrice e la pittrice, in un rispecchiamento evidente.
Anna Banti aveva fede nel suo personaggio e nella volontà di resuscitarlo, sentiva che quella donna le parlava - da un’altra epoca - in un momento di vuoto esistenziale quando, sotto i bombardamenti della guerra, la “storia era muta”.
Nella prefazione elogiò Artemisia come:
Una delle prime donne che sostennero con le parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i sessi.
Lo stesso avrebbe fatto anche lei, da scrittrice, componendo un’opera femminista ante-litteram in tempi non sospetti. L’incanto narrativo sprigionato dalle pagine di Artemisia non sarebbe stato possibile senza l’incontro, senza l’inseguimento tra scrittrice e personaggio. Artemisia è un’alternanza di voci, un dialogo a due, un continuo contrappunto in cui è possibile distinguere dove finisca la battuta della pittrice e inizi quella di Anna Banti. Le loro erano due solitudini esistenziali destinate a incontrarsi e trasformarsi in un unico atto creativo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Anna Banti e la passione di Artemisia: la scrittrice artista
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Molto interessante, cercherò il libro in biblioteca.