In occasione della Giornata mondiale del Teatro analizziamo il capolavoro teatrale del drammaturgo irlandese Samuel Beckett, il cosiddetto dramma dell’attesa, Aspettando Godot (Waiting for Godot, 1952), considerato il più perfetto rappresentante del genere Teatro dell’assurdo, sviluppatosi verso la fine degli anni quaranta del Novecento sino agli anni Sessanta. Beckett concluse l’opera in francese nel 1952, poi la riscrisse in inglese nel 1954.
Nel 1952 Vivian Mercier scrisse sull’Irish Times che Beckett:
Ha scritto un’opera in cui non succede niente, per ben due volte.
Eppure è proprio questo apparente “niente” l’ineffabile mistero di Aspettando Godot, ciò che rende il dramma attuale, specialmente in tempi di crisi sociale e politica. Scopriamo perché.
Aspettando Godot di Samuel Beckett: un’opera post-atomica
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Complesso ed enigmatico come un labirinto, il dramma più famoso di Beckett non ha una vera e propria trama e, quello che potrebbe apparire come una lacuna o una mancanza, è in realtà il motivo della sua intangibile - e indefinibile - perfezione.
Un’opera che si regge su un mistero (che in verità mistero non è) e diventa chiave di lettura dell’esistenza.
Sono in molti a vedere nel dramma dell’autore irlandese la più perfetta metafora della condizione umana: la storia di due personaggi che per tutta la durata della pièce teatrale attendono un altro personaggio che, però, non arriva mai.
Nel frattempo i due, che si chiamano Vladimiro ed Estragone, intrattengono un dialogo effimero e superficiale che non arriva mai a un dunque. Il dramma non si scioglie, poiché Godot non arriva mai. Si può ricondurre l’intera esistenza di un essere umano a un’eterna attesa? In parte sì - e Beckett ce lo dimostra.
Aspettando Godot è ritenuta una delle opere teatrali più importanti del Novecento perché descrive perfettamente la solitudine e l’alienazione dell’uomo contemporaneo. Fu scritta alla fine degli anni quaranta e pubblicata nel 1952, dopo la Seconda guerra mondiale e l’esplosione della bomba atomica. Opera post-atomica è infatti l’espressione più riuscita per descrivere l’inafferrabile dramma di Beckett che narra la frustrazione, la stasi e l’incompletezza dell’umano. Il tempo e lo spazio della rappresentazione non sono definiti: sembrano galleggiare nel nulla.
Non c’è trama, non c’è sviluppo, c’è soltanto attesa e dialoghi vacui. Anche per questo motivo è stato definito il dramma dell’attesa. La cosa sorprendente è che in questa attesa il genio di Beckett traduce il vero significato della vita.
“Se avessi davvero saputo chi era Godot lo avrei descritto” disse Samuel Beckett, premio Nobel per la Letteratura nel 1969 proprio per la sua scrittura in grado di catturare “l’abbandono dell’uomo moderno”. Questa affermazione ci dimostra il vero intento dell’autore: la sua opera si nutriva di quel segreto, che dunque non poteva essere rivelato. Il drammaturgo voleva lasciare al lettore-spettatore la più completa libertà di interpretazione: Godot poteva essere chiunque o nessuno, poteva essere addirittura Dio.
Chi era davvero Godot? Scopriamo il segreto di Beckett.
Aspettando Godot: la trama
Aspettando Godot porta in scena un’allegoria della società moderna. È un’opera intessuta di metafore sin dal principio. La prima scena è ambientata in una strada di campagna, al calar della sera. Vladimiro ed Estragone, due uomini dalla professione imprecisata, che sembrano due vagabondi, trascorrono la vita aspettando Godot. Ma costui sembra non arrivare mai. In compenso sulla scena appaiono altri personaggi, come Pozzo e Lucky che sono un’allegoria del capitalismo e dei rapporti di potere che esso impone: il primo infatti tiene al guinzaglio il secondo e dice di esserne il padrone, lo comanda a colpi di frusta. Il monologo di Lucky è una delle parti più intense dell’opera di Beckett: parla infatti dell’assenza di Dio, che appare come un uomo indifferente dalla barba bianca; denigra il progresso scientifico, che in realtà non porta a nulla di buono e, infine, descrive il mondo come governato dal caos e proclama la mancanza di valori nell’epoca moderna. Il discorso di Lucky, in definitiva, sancisce che la vita è senza scopo.
A questo monologo segue un’altra affermazione da parte di Estragone che ci fornisce un’importante chiave di lettura dell’opera: “Sono infelice”, dice. Al che Vladimiro gli domanda: “Da quando?” E lui risponde: “Me n’ero dimenticato”.
I due faranno altri incontri, ma la persona che attendono, il famoso Godot, non arriva mai. A un certo punto arriva un ragazzo che annuncia che il signor Godot arriverà il giorno successivo. Ma naturalmente non viene.
L’opera si conclude con entrambi che, stanchi dell’attesa irrisolta, dicono “Andiamo”; ma non si muovono.
Chi era Godot?
Dunque, chi era davvero Godot? Come sappiamo, Samuel Beckett non ci ha dato una vera risposta, tuttavia i critici hanno avanzato diverse ipotesi a riguardo e hanno tutte a che fare con l’unico indizio che abbiamo a disposizione, ovvero il nome. Scomponendo in sillabe Godot, possiamo trovare la particella inglese “God” che in inglese vuol dire “Dio”. Ma anche Go, il verbo andare, e Dot, che in inglese significa “punto”: dunque va e stop, andare e fermo, la stessa azione che compiono i protagonisti nel finale sospeso, dicono “Andiamo” ma non si spostano di un millimetro.
Molti sono concordi nell’identificare Godot con Dio; tuttavia se c’è una cosa che l’opera di Beckett afferma è proprio l’assenza di Dio.
Nel finale della pièce i due protagonisti, Vladimiro ed Estragone, pronunciano discorsi esistenziali e appare chiaro, in quel momento, che la domanda “Chi è Godot?” e la stessa attesa dell’ignoto personaggio non è davvero importante, ma solo un espediente narrativo. Alcuni pensano che Godot rappresenti semplicemente “l’occasione” propizia, la Fortuna, che spesso gli uomini attendono per una vita intera. Alle spalle dei due protagonisti a un certo punto appare un salice piangente, una pianta che sembra piangere, simbolo del tutto e del niente; ogni simbolo sembra porre allo spettatore domande senza risposta e farsi allegoria della domanda più grande di tutte Chi è Godot?. Nell’attesa si accresce il disagio, il senso di incomunicabilità, la solitudine, tutto ciò diventa metafora della condizione umana. Pensare che Godot sia Dio è la soluzione più rassicurante; eppure lo stesso Beckett enigmaticamente disse che, se avesse voluto rappresentare Dio, lo avrebbe chiamato semplicemente God. C’è quindi chi identifica Godot semplicemente con la Morte, ovvero la fine dell’esistenza e l’unica cosa certa della vita, una sorta di allegoria del Destino umano. Non a caso i due protagonisti nel finale dell’opera più volte ripetono:
Certamente verrà.
Chi era Godot? Da Beckett a Magritte
In ogni caso proprio in questo segreto risiede la bellezza del dramma di Samuel Beckett. Dio, Fortuna o Morte, ciascuno di noi può dare a Godot (e alla propria vita) il volto che vuole. Godot ricorda un enigmatico quadro di René Magritte: Il figlio dell’uomo (1964) che rappresenta una sagoma anonima, vestita di tutto punto, con il volto coperto da una mela verde. Una figura indecifrabile che trattiene in sé il proprio mistero; anche se i critici hanno colto nell’enigma della mela un riferimento al Paradiso terrestre e al peccato originale, quindi Il figlio dell’uomo potrebbe essere una rappresentazione di Adamo, il primo uomo.
Magritte disse di essere partito da un proprio autoritratto per poi decidere di rappresentare la condizione umana, ovvero il tentativo di andare oltre il visibile. Anche quel quadro smuove nello spettatore una domanda, una curiosità pungente destinata a non essere risolta. Come dichiarò lo stesso pittore in una spiegazione sibillina:
Questo processo avviene infinitamente. Ogni cosa che noi vediamo ne nasconde un’altra; noi vogliamo sempre vedere quello che è nascosto da ciò che vediamo.
Chissà, forse questo era anche ciò che intendeva dire Beckett con il suo indefinibile “Godot”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi è davvero Godot? Un’analisi del segreto di Beckett
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