Nel sesto capitolo di "Conversazione in Sicilia", Elio Vittorini sembra attingere dalla Commedia dantesca una serie di immagini che gli consentono di rappresentare con un rilievo sorprendente il “mondo offeso” al centro della riflessione del suo libro rivoluzionario, punto di svolta di una profonda conversione.
Dall’engagement naturale al mondo offeso
Elio Vittorini amava Dante. Appena adolescente egli collezionava l’edizione Sonzogno in fascicoli della Commedia con le illustrazioni di Dorè, cosicché l’opera dantesca venne ad occupare fin dall’inizio un posto privilegiato nella biblioteca dello scrittore siciliano e nella sua visione del mondo e nell’approccio intellettuale con gli avvenimenti della realtà contemporanea. Ne è una dimostrazione una pagina del “Diario in pubblico” del 1949 in cui Vittorini afferma che Dante ha scoperto grazie al suo “engagement naturale” una realtà:
ch’era di un tempo molto più lungo… ch’era di un tempo così più lungo e direi così più lungo e direi così più reale così più profondo da essere ancora, almeno in parte, lo stesso in cui oggi viviamo.
In questo brano il giudizio su Dante viene collocato al centro della discussione sull’”engagement naturale”, ossia la capacità delle opere d’arte di farsi espressione spontanea dell’esperienza collettiva, piuttosto che uscire da isolati sforzi intellettualistici (che Vittorini etichetta come “engagement velleitario”). Pochi anni prima Vittorini aveva dato alle stampe “Conversazione in Sicilia”, il romanzo che attraverso una rielaborazione delle letture giovanili dell’autore rappresenta secondo il critico e biografo vittoriniano, Raffaele Crovi, un viaggio reale e simbolico di ritrovamento dell’identità, esistenziale e civile.
Il protagonista dell’opera è Silvestro, un alter ego dell’autore che fa ritorno dal Continente nella sua terra natia mosso da “astratti furori” negli anni più cupi del Regime fascista e mentre in Spagna sta imperversando la guerra civile. Nel capitolo sesto, Silvestro è in viaggio su un treno locale in compagnia di altri viaggiatori, tra cui spicca con evidenza la figura di un siciliano a cui egli attribuisce l’epiteto di “Gran Lombardo”, che richiama alla mente un personaggio e un brano celebre del canto XVII del Paradiso (vv.70-72, “Lo primo tuo refugio il primo ostello /sarà la cortesia del Gran Lombardo/ che in su la scala porta il santo uccello”).
Oltre al richiamo alla condizione di esilio che accomuna Silvestro al poeta fiorentino, l’epiteto del Gran Lombardo evoca secondo Leonardo Sciascia una coordinata geografica, la “Sicilia lombarda”, in cui la popolazione mostra nei tratti somatici, nella cultura e nell’impegno civile e persino nell’articolazione turbata delle vocali una civiltà più evoluta, “settentrionale” e oltretutto una categoria morale che rimanda a a una dimensione mitica e ideale (un’isola a se stante repubblicana e antifascista nella Sicilia e nell’Europa dominata dai fascismi). Tutto ciò si condensa nel profilo nobile del Gran Lombardo che pensa “ad alti doveri”.
L’apparizione del personaggio richiama dunque alla coscienza di Silvestro, nel suo viaggio di ritorno alla terra dei padri (che somigliano nei tratti fisici e morali al Gran Lombardo) l’ispirazione di un dovere morale di un dovere civile. E non a caso, se riflettiamo che “Conversazione in Sicilia” rappresenta nel percorso letterario e intellettuale di Vittorini non solo la piena maturazione di una consapevolezza della crisi di un’epoca (la dittatura fascista, la guerra), ma anche il momento di una “conversione” dell’autore siciliano dal fascismo eretico, malapartiano, della giovinezza, verso una coscienza nuova del ruolo e del mandato dell’intellettuale, che passa (attraverso il modello dantesco) attraverso l’assunzione del concetto di “engagement naturale”.
È in questo libro di viaggio e di riflessione (auto) critica che Vittorini abbandona gli “astratti furori” (“vale a dire non eroici, non vivi”, riprendendo le parole dell’alter ego Silvestro) per aprirsi all’incontro esperienziale con la realtà sommersa del “mondo offeso”, che riacquista la sua autenticità nella fisicità eloquente dei volti, dei corpi, delle storte sillabe di un popolo che durante il viaggio sembra riemergere da un sottosuolo di soprusi, censure, silenzi imposti dalla propaganda del Regime.
In questo mondo, attraverso la risorsa iniziatica del viaggio (un viaggio orfico, una discesa agli inferi di un’umanità sepolta sotto il tappeto buono della Storia ufficiale) Vittorini riprende dominio del suo mandato di intellettuale legandolo al destino degli umili, del “mondo offeso”, riscattandone la funzione, morale civile. Troppo a lungo separata dal mondo, scaduta al punto da diventare astratto velleitarismo senza più alcuna presa sulla realtà. La situazione che coinvolge il personaggio Silvestro non è a ben vedere tanto dissimile dal personaggio viator Dante nella Commedia, per quel forte senso del valore dell’esistenza umana che si condensa nelle conversazioni e nelle riflessioni di Silvestro, nel suo sforzo di comprendere con un freddo, in apparenza, esercizio di discernimento razionale ogni risvolto storico, etico, politico, del suo tempo, valutandone responsabilità e conseguenze. Anche Silvestro durante il viaggio può contare su alcune guide indispensabili che ne orientano il cammino e la comprensione: il venditore di arance, l’arrotino, la madre Concezione e più di ogni altro il Gran Lombardo che lo affaccia sulla soglia di una rivelazione, quella del “mondo offeso”. Lo stile di queste conversazioni intrattenute da Silvestro è parco, essenziale e ,si potrebbe aggiungere, maieutico. Un linguaggio che genera verità, mosso da una pietà sostenuta dal raziocinio, avente come scopo la “liberazione della vita” (per citare Max Stirner, uno dei maggiori modelli intellettuali di Vittorini in questo periodo). È su questo dantesco senso terreno (enucleato da ogni sovra senso anagogico presente nell’antigrafo dantesco, inattuale e incomprensibile del resto fuor dalla mentalità medioevale) che Vittorini-Silvestro orienta in queste pagine il suo sforzo di comprensione e di rinnovamento intellettuale e morale, concentrandolo nella prassi dell’ “engagement naturale”.
Figuralità del mondo offeso
Mentre Silvestro a bordo di un treno locale ascende ai paesi montani della Sicilia, nel medesimo scompartimento egli incontra un Gran Lombardo “aperto e alto e con gli occhi azzurri”; due giovani, uno “sanguigno e forte”, l’altro invece “scarno e minuto per la malaria” e infine un vecchietto “con la pelle coriacea, a scaglie cubiche, come di tartaruga e incredibilmente piccolo e asciutto: una foglia secca”.
Fuori dallo scompartimento stazionano due sbirri, “Coi baffi e senza baffi”, che rappresentano la caratterizzazione dei poliziotti autoritari, ma consapevoli e vergognosi della loro “puzza di sbirri” (i nomignoli fanno pensare al “Baffo di sego” de “Le mie prigioni” di Pellico).
La situazione presentata nel capitolo sesto di “Conversazione in Sicilia” sembra drammatizzare lo scenario delimitato di un rituale di iniziazione mediante il quale, in attesa di ritornare al vero teatro della sua coscienza (la casa materna) Silvestro vive il suo primo approccio con le ragioni esistenziali del “mondo offeso”. Il dialogo con il Gran Lombardo è l’esperienza che gli permette di acquisire un’affinità morale, di ricongiungersi con la natura complessa e peculiare della “sicilitudine” da cui la vita alienante in Continente lo aveva estraniato. Il dialogo si svolge alla presenza silente degli altri personaggi e pur tuttavia essenziale nell’economia della rappresentazione. Essi infatti sono testimoni eloquenti nella loro mutezza e parlano in realtà con il linguaggio e la voce del loro silenzio, utilizzando come mezzo di comunicazione la loro evidenza e figuralità. Sono inoltre indispensabili per animare il quadro della vicenda con quell’intreccio di “immagini vere e simboliche” che secondo il critico Giovanni Falaschi è il tratto distintivo del racconto.
Essi presentano inoltre sostanziali differenze tra loro: il realismo da bozzetto verista dei due giovani è diverso dalla raffigurazione satirica dei due sbirri e ancor più dal profilo aulico e tragico del Gran Lombardo. La magistrale opera di cesello con cui Vittorini definisce la figura del vecchietto è un’ulteriore nota stilistica dissonante nel quadro complessivo dell’episodio. In particolare per questo singolare personaggio Vittorini compone un mosaico di metafore che raffigura una sorta di ibrido tra l’animale e il vegetale, stemperandone i connotati umani e accentuandone quelli simbolici.
Mentre infatti i due giovani rappresentano se stessi, il vecchio sembra evocare qualcos’altro. Lo si arguisce da un episodio: allorché Silvestro esamina le ragioni per cui molti siciliani scelgono di diventare “sbirri”, il Gran Lombardo risponde con una considerazione che investe il destino di un popolo intero.
Siamo un popolo triste noi… Sempre pronti, tutti, a veder nero… Sempre sperando qualcosa d’altro, di meglio, sempre disperando di poterla avere… Sempre abbattuti…E sempre con la tentazione in corpo di toglierci la vita.
Il tono percussivo, incalzante, da requisitoria del discorso evidenzia il tema morale del ragionamento, vale a dire il suicidio, prefigurato quale conseguenza naturale di un’altrettanto naturale malessere esistenziale dei siciliani. Mentre il Gran Lombardo sviluppa la sua riflessione, Silvestro guarda fisso il faccino del vecchietto senza distogliere lo sguardo. Quanto più il suo interlocutore si addentra nella natura dei siciliani, tanto più il vecchio si colloca al centro della scena e dell’attenzione di Silvestro, che ne considera le fattezze, la consistenza da foglia secca, il fischio da fuscello schiantato con cui il vecchietto sottolinea puntualmente le parole del Gran Lombardo. La consistenza del vecchio e il suo linguaggio non sono umani, ma arborei, vegetali, da uomo-pianta, un po’ come le anime dei suicidi che Dante incontra nel canto XIII dell’Inferno secondo la magistrale interpretazione di Leo Spitzer. Pare davvero di percepire nell’immobilità del vecchietto, nel suo fischio, un’eco suggestiva dei versi danteschi: “ Allor soffiò il tronco forte e poi / si convertì quel vento in cotal voce” ( Inf, XIII, vv. 40-42).
È possibile dunque che anche il vecchietto di “Conversazione in Sicilia” come i personaggi del poema dantesco offra con la sua condizione e il suo atteggiamento una “somma di se stesso”, (E. Auerbach, “Studi su Dante”, Feltinelli, 1991, pag.83) offrendo nella sua evidenza figurale un’immagine dell’essenza e del destino della vita umana, che trova il suo completamento e la sua necessità solo se contemplata al di fuori della vita stessa, da una prospettiva che si situa oltre il tempo umano, nell’eternità compiuta della morte? Sta di fatto che sia il vecchietto sia il Gran Lombardo sono le due guide fondamentali nel viaggio orfico di Silvestro ed entrambe ci appaiono connotate secondo un modello figurale ispirato allo stile e alla visione dantesca. Il Gran Lombardo è la guida razionale, virgiliana, nella sua sapienza e nel suo profetismo; il vecchio a sua volta è l’incarnazione e l’adempimento, naturale e simbolico, delle parole profetiche del compagno se queste ultime centrano un destino, il vecchio ne è la raffigurazione fisica e corporea, incarnando la sorte che attende i siciliani (e tutti gli esemplari umani del mondo offeso), anche quelli presentemente robusti, sanguigni, ma già “con tristezza da animale insoddisfatto”: l’esito di anime morte, destinate a diventare sterpi attoscati, secchi fuscelli. Tutti i personaggi dell’episodio sono la raffigurazione corale del destino di un popolo, di un’isola inscritta in un’altra isola (l‘Italia, l’Europa degli anni Trenta in balia dei Fascismi e della barbarie). Il volto sanguigno del giovane catanese ha già nel sangue il germe della sua corruzione che lo trasformerà nel viso giallo di malaria dell’altro giovane e poi nel vecchio, l’immagine compiuta (figurale, nell’accezione di Auerbach) della dimissione dell’umano che non ha più voce, ma solo un lamento inaridito.
Per ispirazione dantesca, la carrozza di un treno si trasforma sotto i nostri occhi nello scenario simbolico di un destino di sconfitta, di perdita dell’umano. Alla selva dei fichi d’india del paesaggio reale si sovrappone il paesaggio simbolico della selva dantesca dei suicidi: dunque l’Inferno. Silvestro nella selva (nomen omen) alla ricerca di una strada e di un’identità smarrita, necessita forse di maturare una preliminare consapevolezza, attraversando fino in fondo l’Inferno della civiltà contemporanea per poter giungere alla soglia di una conversione che assume i connotati di una rivoluzione come atto non puramente sociale, ma esistenziale (coerentemente con gli insegnamenti di Stirner)? È significativo, ad ogni modo, che alla base di questa conversione del personaggio Silvestro (e del suo autore), la lezione, remota e vitale, del grande poeta poeta fiorentino medioevale, acquisti il rilievo di una testimonianza attuale e urgente e il richiamo morale e intellettuale verso una realtà che ci riguarda.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Conversazione in Sicilia: analisi e lettura del sesto capitolo del libro di Vittorini
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo News Libri Curiosità per amanti dei libri Elio Vittorini
Splendida recensione, capace di dipanare l’asse portante delle intenzioni vittoriniane; ampiezza giustificata di riferimenti letterari e filosofici.
Il giovane autore promette di farci da guida anche sui sentieri più impervi della letteratura.
La ringrazio molto per il messaggio e soprattutto per l’attenzione che ha dedicato al mio saggio. Adriano