Le elezioni politiche in letteratura
Nella letteratura italiana l’opera più famosa dedicata al tema delle elezioni politiche è probabilmente La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino, un breve romanzo pubblicato nel 1963. Il libro descrive lo svolgimento delle elezioni nel Cottolengo di Torino, dove i ricoverati sono spinti dai religiosi a votare per la Democrazia Cristiana. Lo scrittore fa riferimento alle sue esperienze personali e nella sua presentazione non trattiene lo sdegno, evocando delle immagini da girone dantesco:
“Erano così infernali che avrebbero potuto ispirarmi solo un pamphlet violentissimo, un manifesto antidemocristiano, un seguito di anatemi contro un partito il cui potere si sostiene su voti (pochi o tanti, non è qui la questione) ottenuti in questo modo”.
Calvino aveva conosciuto e combattuto il totalitarismo fascista che aveva ideato l’espressione propagandistica “ludi cartecei” per irridere le votazioni, e questo racconto lungo fu per lui un’occasione per meditare sui meccanismi democratici.
Gli aneddoti evocati dal romanziere sono grotteschi:
“L’elettore che s’era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta s’era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni, o la fila dei deficienti più capaci d’apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato”.
Eppure oggi in Italia l’astensionismo aumenta e non serve essere scrutatori in un manicomio per assistere a episodi non dissimili da quelli elencati, pensiamo ad alcuni titoli di giornale: Mortadella nella scheda elettorale. Da Roma a Milano, il teaser cult anti casta (affaritaliani, Giovedì 21 febbraio 2013), Bari, mette feci nella scheda elettorale e la infila nell’urna: denunciato un 27enne (Il Mattino, Lunedì 26 maggio 2014)... E come dimenticare la bufala delle matite copiative lanciata da Piero Pelù nel 2016, che tanta confusione ha portato tra i seggi? Che dire poi dei consueti imbarazzi creati dai casi di elettori che ripiegano la scheda fuori dalla cabina e di altri votanti che domandano addirittura agli scrutatori per quale schieramento dovrebbero esprimere il loro favore... Per notare spettacoli di quest’ultimo genere basta prestare servizio ai seggi per qualche anno.
Le elezioni comunali in villa di Domenico Pittarini
Un’altra opera italiana dedicata alle elezioni l’ha scritta in lingua veneta il poeta vicentino Domenico Pittarini (1829-1901) e si intitola proprio Le elezioni comunali in villa. Si tratta di un testo teatrale, pubblicato per la prima volta a Schio nel 1912 dalla tipografia dei fratelli Miola.
Chi era Domenico Pittarini
La biografia del Pittarini sembra quasi un perfetto riassunto delle epoche attraverso le quali è vissuto: partecipò al Risorgimento tra le fila dei liberali confidando in un futuro migliore per la Venezia liberata dal dominio asburgico, nel 1859 fu anche arrestato, ma dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia comprese presto che ci sarebbero voluti tempo e impegno per la maturazione di uno stato moderno. Espresse le inquietudini delle campagne venete in un copione che stampò nel 1870: La politica dei villani, che a suo tempo godette di un vasto successo. I contadini rappresentati in questa pièce hanno diversi dubbi riguardo l’ordine politico in cui vivono, c’è chi crede ancora che gli austriaci possano tornare e disfare l’unità della Penisola, ma tutto si conclude con un conciliante lieto fine.
Intanto, anche a causa della sua generosità e del suo buon cuore, Pittarini accumulò molti debiti e nel 1888 fu costretto a trasferirsi in Argentina. Spirò presso El Trebol (Córdoba), senza rivedere la sua Patria, e il medesimo destino toccò a tanti altri suoi connazionali.
Dal punto di vista economico, gli ultimi anni del governo asburgico in Veneto (dal 1859 al 1866) furono terribili, e il popolo, gravato da pesanti tasse, visse momenti drammatici. Nella sua raccolta di aneddoti Svago a buona scuola (1880), la trevigiana Luigia Codemo (1828-1898) ricorda:
“Per me gli anni, che scorsero dal 59 al 66, vorrei morir mille volte piuttosto che passarli ancora. Nei padroni una cupa oppressione, mascherata a condiscendenza; un volerci dare libertà, che non si accettava: per noi un odio di cui si era stanchi; tutto il nostro denaro andava fuori; un impoverimento progressivo, che ci conduceva al marasmo”.
E, dialogando con Alessandro Manzoni, la letterata rimembrò con altrettanto dolore le lotte patriottiche:
“- Senza il servaggio di Venezia non ci sarebbe unità italiana - riprese Manzoni.
- È possibile - soggiunsi - ma l’abbiam pagata coi nostri dolori. Le lagrime che ci han costato cinquant’anni di servitù sono un mistero per noi stessi, ed è un mistero quanto possano durarne le conseguenze, a cui credono che in un giorno si rimedii”.
Come aveva appunto compreso la scrittrice, l’unificazione non sanò subito le piaghe della miseria e sino al secondo dopoguerra la Venezia rimase una regione povera, terra d’emigrazione.
Il verseggiatore veronese Berto Barbarani (1872-1945) nella sua commovente poesia I va in Merica (1896) scrisse:
“Crepà la vaca che dasea el formaio,/
morta la dona a partorir ’na fiola,/
protestà la cambiale dal notaio,/una festa, seradi a l’ostaria,/
co un gran pugno batù sora la tola:/
«Porca Italia» i bastiema: «andemo via!»”
Che in italiano si può tradurre:
“Morta la vacca che dava il formaggio,/
morta la moglie partorendo una figlia,/
protestata la cambiale dal notaio,/una festa, chiusi in osteria,/
con un gran pugno battuto sul tavolo:/
«Porca Italia» bestemmiano: «andiamo via!»”
L’opera teatrale di Domenico Pittarini
Il Pittarini de Le elezioni comunali in villa non è più lo stesso de La politica dei villani, non mostra più speranza verso la democrazia, lo stato liberale e la filantropia della borghesia. La commedia ci mostra che il Risorgimento è finito, ma nulla è cambiato: “Ecote a onde che va finiere sta libertà; che i poariti resta poariti” (ecco dove va a finire questa libertà; che i poveri restano poveri), e c’è ancora chi grida insulti come: “spia dei talgiani, ladron” (spia degli italiani, ladrone).
I braccianti portati in scena dall’autore sono privi della più basilare educazione politica, senza istruzione non sono nemmeno in grado di parlare correttamente il vernacolo, ma si esprimono in “rustico”, con costrutti grammaticali “creativi” e parole storpiate. Era la normalità, il mappamondo diventava il “nacamondo” e a Bovolenta (in provincia di Padova) il nome della distesa dei Prati Arcati (così chiamati per la forma a dorso di mulo data al terreno, che faceva defluire l’acqua) divenne “Patriarcati”, cosicché da almeno duecento anni sono ormai accettati ambo i toponimi.
Il nuovo stato liberale ha costituito “el santuario politico del Comune”, cercando di imporre una religione laica che si sostituisse al Cattolicesimo rurale, ma per Pittarini quel santuario è solo “na manega de pajazzi”: una manica di pagliacci, dagli elettori ai responsabili del seggio, che collezionano un pasticcio dopo l’altro.
I popolani non hanno neppure la preparazione per approcciarsi alla forma più basilare della partecipazione politica: l’elezione del sindaco del loro paese. Le votazioni sono pilotate e i risultati già decisi:
“1° CONTADINO (a l’altro) - Ciò, chi getu metesto ti sulle schene?
2° CONTADINO - Mi gnente, me le ga consegnà el Cursore scrite e tuto.
1° CONTADINO - E anca mi istesso, manco fadiga.
2° CONTADINO - Manco secade.”
Consegnare le schede già compilate col nome del candidato destinato a vincere costa meno fatica e meno legnate; allora in Italia la violenza politica era un fatto normale, anche nelle elezioni dei sindaci di campagna.
L’opera di Pittarini è stata riscoperta dai lettori contemporanei soprattutto grazie alla lodevole attenzione che le ha dedicato il consigliere regionale Ettore Beggiato, curatore dell’edizione del 1989 stampata come supplemento al mensile “Veneto Novo”. Non senza ragioni credibili, il politico sostiene la tesi che questa commedia ritragga soprattutto l’inutilità e la sterilità del plebiscito tenutosi nelle province venete nel 1866. Come tutti i plebisciti della sua epoca, quello veneto ebbe un valore soprattutto simbolico, il voto della popolazione fu in massima parte una grande festa e quasi sicuramente anche Pittarini partecipò alle celebrazioni trionfali che segnarono lo storico cambiamento di regime. Ma probabilmente quella de Le elezioni comunali in villa è una critica più generale e più radicale: forse il drammaturgo voleva dire che la democrazia non ha senso se è imposta a un popolo che non ha una formazione sufficiente per votare con la giusta consapevolezza e si lascia manovrare dai demagoghi, o tuttalpiù sopravvive con la convinzione che niente possa mutare e che tutti i politici e gli amministratori della cosa pubblica siano pressappoco uguali.
[Nell’immagine: i padovani festeggiano l’arrivo del Re d’Italia nella loro città dopo il plebiscito per l’annessione della Venezia, stampa tratta da "Illustrated London News", 1° Settembre 1866.]
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La democrazia e l’istruzione delle masse nelle commedie di Domenico Pittarini
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