Elena Lavorgna, classe 1981, vive la sua infanzia a San Lorenzello (BN). Dopo il Liceo parte per la Capitale dove si laurea in Lettere alla Sapienza con una tesi su "Corrado Alvaro e la Letteratura distopica" (vincitrice del Premio tesi Corrado Alvaro 2007). Dopo una parentesi a Pisa per abilitarsi all’insegnamento, torna nel Sannio dove vive attualmente, lavorando come insegnante precaria. Collabora all’edizione 2012 del manuale Dentro la storia (D’Anna Edizioni), pubblicando un percorso storiografico sui Totalitarismi. Scrive poesia, inevitabilmente, da sempre. Per Bel-Ami Edizioni ha pubblicato una raccolta delle sue poesie dal titolo Diversamente Stabili nel libro "Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo".
Per SoloLibri.net Elena ha accettato di rispondere alle nostre consuete 4 chiacchiere contate...
Elena, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
- Prima Chiacchiera: Le tue poesie, come dice il titolo della raccolta stessa, trattano di precariato, tuttavia, leggendole, sembra che il punto su cui vuoi focalizzarti non sia tanto la mancanza di lavoro o di contratti a tempo indeterminato quanto uno stallo dei giovani in una sorta di precariato esistenziale. Cosa rende davvero i trentenni di oggi così spaesati?
L’idea della raccolta nasce a posteriori alla scrittura di buona parte delle liriche (tranne In bianco e Dentro la valigia di cartone), molte delle quali non comprese in questa breve pubblicazione, dalla sensazione ricevuta da alcuni lettori: poesie che parlano di precariato.
Scrivendole io non mi sono mai posta il problema di parlare o meno di precariato: ho parlato di me, delle mie frustrazioni presenti, dell’ansia per il futuro come dimensione della im-possibilità per la mia generazione, delle ansie della disoccupazione prima, poi del lavoro non pagato, poi del lavoro precario; del sentirsi intrappolati in un’età non propria, della voglia di cambiare e della paura di non riuscire a farlo neanche un po’.
Le nostre esistenze “diversamente stabili” si fondano su uno sforzo continuo: tenere insieme i pezzi della nostra maturità intellettuale, emotiva, sociale, politica pur non possedendo alcuna stabilità economica, contrattuale, nessuna possibilità pratica VEROSIMILE di mettere su famiglia, nessuna possibilità tangibile di continuare a combattere per migliorarsi, e realizzare magari i propri sogni. Allora ci sta che qualcuno di noi cominci a sentirsi un po’ precario anche dentro: il precariato esistenziale è una realtà che colpisce più ancora che quello contrattuale. Non ha limiti di età – se pure noi lo patiamo a livello generazionale – ma è diventato la dimensione quotidiana di questo mondo in crisi, di questa Italia in crisi. Certo, parlarne non risolve, ma magari può aiutare ad uscire dal vittimismo solipsistico e affrontare la propria precarietà inventandosi un diverso modo di essere “stabili”.
- Seconda chiacchiera: nella poesia "Cassetti" parli di come si può fare confusione tra sogni e doveri, soprattutto in una società come la nostra così liquida e relativa. Come si fa a riconoscere quali erano davvero i sogni? Cosa può fare la poesia per aiutarci?
Per aiutarmi a rispondere a questa domanda ricordo come ho tentato di spiegare ad un classe di tredicenni che non sapeva la differenza tra “ambizioni” e “sogni”, confusa dalle alte aspettative genitoriali, dall’elevato livello della scuola in cui studiavano, dalla società liquida o da noi che dovremmo aiutarli a crescere senza confondere le due cose… Ho detto loro di pensare a cosa avrebbero desiderato fare dopo gli studi, quale lavoro, professione, incarico. Ecco queste sono le ambizioni: lavorando sodo, impegnandosi e con una buon a dose di fattore C.. (sì, lo ammetto, l’ho detto!), si può provare a realizzarle. Ora pensate alle cose che in assoluto vi piacerebbe fare: i posti che non avete mai visitato, le persone che non avete ancora incontrato, quello che non c’è perché deve essere ancora inventato, quello che non funziona perché qualcuno non lo ha ancora risolto: ecco quello è l’orizzonte dei sogni. Dovrete impegnarvi molto e guardare sempre in quella direzione, anche se non sarete mai sicuri di realizzarli.
Sarebbe facile rispondere così anche in questa sede. Sognare, invece, oggi è un lusso. Un lusso che non riesce a distoglierci dall’”orrido vero”, ma di cui pure avvertiamo la necessità. Un lusso che possiamo e dobbiamo permetterci per mantenerci vivi. Io insegno e devo potere continuare a sognare, tanto meno quanto basta a raccontare ancora ai nostri ragazzi che impegnarsi, sudare, sperare, valga davvero la pena. La poesia, anche la più pessimistica, non è che la testimonianza che per un istante, un istante soltanto, possiamo essere Altro, guardare Altrove, sognare (forse).
- Terza chiacchiera: nella poesia "Dentro la valigia di cartone" si parla di emigrazione verso l’estero. Questo modo di vedere la migrazione come fuga non contribuisce ulteriormente ad alimentare la visione vittimistica che i giovani tendono ad avere della propria generazione, visione che tu sembri fortemente criticare nella poesia precedente "Buongiorno/Arrivederci"?
Non sono sicura che scegliere di partire sia una maniera di cedere, almeno, non sempre. Oltre il vittimismo o l’alibi – ormai abusato – del vivere una “generazione sbagliata”, i giovani o anche i “diversamente giovani”, sanno di dovere rimboccarsi le maniche e trovare la propria maniera di resistere. Ci sono diversi modi di ribellarsi alla realtà presente. Non sono sicura che partire – bisogna considerare la parola fuga nel senso di un “andare verso” – sia meno coraggioso che restare. Io sono rimasta, e mi piacerebbe potere riuscire a creare il mio futuro nel mio/nostro Paese, con tutti i suoi limiti e le sue difficoltà. E’ vero anche che non so se sarei in grado, come tanti, di re-inventarmi – ancora un a volta in un altro Paese o continente e ri-guadagnarmi altrove il pane e futuro, a tempo indeterminato…
- Quarta chiacchiera: la quarta domanda è più breve ma per te forse la più difficile. Qual è la poesia che ti rappresenta di più e perché?
Domanda difficile, risposta acrobatica e, inevitabilmente, non abbastanza sintetica…
Credo che nessun testo poetico possa rappresentarci a pieno, per il fatto stesso che ogni poesia è solo il riflesso malriuscito di una parte di noi.
Per quanto mi riguardo vivo la poesia come una cura e un dolore, una verità che deve essere detta in quell’istante; per cui non torno quasi mai sui miei pezzi, non lavoro di cesello, non limo e non falsifico: tengo quello che vale e cestino il resto, senza quasi modifiche.
Un pezzo della raccolta cui sono ancora molto legata è “Even if” perché dice di me quello che serve: scritto in due minuti o tre – mai più toccato- su un treno di ritorno da Pisa a Campiglia, dopo aver parlato a un vecchio amico – il prof. Baldocchi - del ’68 che non verrà e perché, degli Anni di Piombo che (si spera) non torneranno e perché, del fatto che il terrorista potrebbe essere uno chiunque, con le dovute motivazioni, “anche te Elena” (sostiene, poi ride); dell’educazione alla bellezza che sola potrebbe salvare le giovani generazioni dal crollo di fiducia e quasi di affetto verso questo strano imperfetto mondo.
Amo “Even if” perché mi ricorda che il tempo che viviamo, il mondo che abitiamo le persone che incontriamo, creano il nostro campo di POSSIBILITA’, per cui oggi siamo dove siamo, quelli che siamo, e non altri. Amo “Even if” perché attesta l’istante in cui nella poesia del solipsismo, dell’autoerotismo lirico, del trionfo dell’Io, si insinua a gamba tesa la Storia. “L’Italia va a farsi fottere/ il mondo va a farsi fottere/ E per la prima volta me ne sento responsabile”. Questa poesia testimonia della necessità, dell’urgenza quasi fisica che ha determinato la svolta necessaria alla mia scrittura: la poesia può ancora dire, ancora urlare, ancora porsi “contro”.
Tacere non è abbastanza, tacere non è possibile.
Ecco perché Even if, in qualche modo, rappresenta chi sono e perché scrivo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Elena Lavorgna
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