Leggenda narra che Euripide morì sbranato dai cani del re Archelao, suo mecenate, mentre, nell’oscurità della notte, si stava recando clandestinamente in visita dalla moglie di lui, Cratero.
Tutti i tragediografi greci, come tradizione vuole, sono accomunati da morti terribili e atroci e, a tratti, al limite del comico: in verità queste morti tragiche celano in sé una sorta di antica “Legge del contrappasso”, ciascuno di questi decessi infatti si compone di una parte allegorica, nello specifico Euripide sembra essere punito per la sua passione per le donne - cui tra l’altro nelle sue tragedie aveva sempre dato parti di primo piano.
Nella seconda versione della leggenda infatti Euripide sarebbe stato ucciso, sempre nel cuore della notte, da un gruppo di donne invasate seguaci di Dioniso - Le Baccanti? - con un parallelismo evidente con una delle sue tragedie più celebri. Pare evidente una proiezione dei tratti più orfeodionisiaci dell’opera euripidea sul fine-vita del suo autore.
Filocoro ci narra che Euripide morì a oltre settant’anni di età, mentre Eratostene specifica che morì a settantacinque anni; in ogni caso gli storici greci sono concordi nel dire che il tragediografo nacque in una data decisiva, lo stesso giorno della Battaglia di Salamina nel settembre del 480 a.C., probabilmente il 23 settembre, quando gli ateniesi guidati da Temistocle trionfarono in maniera gloriosa contro i persiani di Serse.
Oggi Euripide ci consegna opere ancora straordinariamente moderne che, negli anni, sono state più volte riprodotte e attualizzate poiché continuano a parlare al presente. In particolare, il tragediografo greco ci ha donato protagoniste femminili indimenticabili, pensiamo a Medea o alle Baccanti, protagoniste di una delle sue ultime tragedie e che, in qualche modo, ne determinarono il destino.
Scopriamo la sua vita e le sue opere.
La vita di Euripide
La vita di Euripide si trasfonde, sin dal suo principio, in un alone leggendario: si racconta che fosse di umili origini, che il padre fosse un oste e la madre una venditrice di erbaggi. Il mestiere della madre di Euripide, Clito, ci è stato tramandato in più occasioni anche dal commediografo Aristofane (in particolare nel suo capolavoro Le rane), il che rende plausibile l’idea che sia una notizia fasulla tramandata dai poeti comici dell’epoca.
Più probabile infatti che Euripide fosse nato in una famiglia agiata, con genitori che dedicarono tempo e attenzioni alla sua educazione e gli fornirono inoltre una ricca biblioteca per compiere i suoi studi. Pare che il giovane tragediografo fosse portato per la ginnastica e per l’atletica (pare che fu tra i danzatori in onore di Apollo Delio), quanto per la pittura realizzando notevoli tavolozze dipinte in giovane età.
Sono documentati anche i suoi rapporti con i più noti filosofi e sofisti a lui contemporanei, tra cui Socrate, Protagora, Anassagora, che conobbe ad Atene; tutti contribuirono allo sviluppo della sua attitudine meditativa e alla sua continua “investigazione” di ogni aspetto della vita. A causa di questo suo temperamento fortemente riflessivo Euripide fu denominato il filosofo della scena, a questa definizione contribuirono anche la sua poetica pessimistica e il suo temperamento schivo e solitario.
In vita, nonostante la sua vasta produzione tragica, Euripide non ebbe molta fortuna; la sua fama iniziò solo dopo la sua morte, alimentata tra l’altro da varie leggende. Morì in Macedonia, attorno al 408 a.C., alla corte del re Archelao che fu il suo ultimo mecenate. La sua ultima tragedia fu proprio L’Archelao, in omaggio all’omonimo antenato del re macedone che, si narrava, discendesse da Eracle. Alla sua morte lasciò 92 opere, di cui 78 tragedie.
Dopo la sua scomparsa fu innalzato un cenotafio in suo onore dagli ateniesi, e Sofocle lo commemorò imponendo al coro degli attori della sua tragedia di vestirsi a lutto.
La fama di Euripide fu alimentata dalle nuove generazioni che, dopo la sua morte, tennero alto il suo nome facendone il loro poeta prediletto.
Le tragedie di Euripide, infatti, giungono sino a noi mantenendo intatta la loro attualità, poiché il tragediografo greco è colui che, tra tutti, meglio si è reso portavoce dell’umana debolezza, della contemplazione vivente della vita e della morte, facendo del palcoscenico l’immagine stessa del cosmòs. Inoltre in Euripide per la prima volta la relazione tra l’uomo e gli Dèi non era presentata in maniera lineare, come per Eschilo e Sofocle, ma appariva ricca di contraddizioni, ambivalenze, dubbi: non era raro leggere di insulti o bestemmie dirette agli Dèi, addirittura la stirpe mortale scaglia maledizioni contro gli Déi che, compiaciuti della loro vita immortale, hanno condannato gli uomini alle sofferenze e alla morte. Soprattutto in Euripide è onnipresente il lamento sulla fragilità della condizione umana, cantato senza sosta, ininterrottamente, da tutti i suoi personaggi, da Ecuba a Oreste alle Troiane.
Anziché gli Dèi, Euripide decise di mettere al centro delle sue tragedie il caso, la tuke, in una intenzionale demistificazione del divino a favore dell’umano.
Tutti i mortali devono morire, e nessuno di loro sa se vivrà il giorno di domani. (Alcesti)
Le tragedie di Euripide e la visione del femminile
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Le tragedie più celebri di Euripide hanno per protagoniste le donne dell’antichità greca: Alcesti, Medea, Le Troiane, Le Baccanti. Ancora oggi la visione del femminile di Euripide appare molto contemporanea; forse fu il primo tra gli autori antichi a riconoscere le ingiustizie che le donne erano costrette a subire in quanto donne e a cogliere nei personaggi femminili un grido di ribellione nutrito dalla sfortuna di nascere femmine in un mondo dominato dagli uomini. Con estrema sensibilità, Euripide fu il primo tragediografo a mettere in luce la condizione della donna, ponendo al centro dei suoi drammi non gli eroi epici, ma i vinti, la cronaca pietosa e crudele degli sconfitti, la concezione della forma mentis femminile.
Vediamo alcune delle più celebri protagoniste delle tragedie euripidee.
- Alcesti: composta attorno al 438 a.C. narra la storia di Alcesti, moglie devota, disposta a sacrificare la propria vita per la salvezza del marito Admeto, chiamato dal dio Apollo a espiare la colpa per aver ucciso i Ciclopi. Dopo aver fatto promettere al marito che non la sostituirà con un’altra donna, Alcesti pronuncia un ultimo discorso di commiato in cui emerge il tema centrale della tragedia, ovvero il destino di morte cui sono condannati tutti gli uomini. Nel celebre finale Alcesti riflette sulla duplice caratteristica della morte: da un lato la morte sottrae le gioie della vita; dall’altra concede infine una eterna insensibilità al dolore e alla sofferenza, poiché chi muore “non è più nulla”. Ai vivi, conclude la donna vestita a festa per la sua celebrazione funebre, non rimane che perpetuare il ricordo degli estinti. La tragedia si conclude con un finale inatteso, ovvero con la miracolosa resurrezione della donna che fa ritorno alla reggia accanto al suo sposo che le è rimasto sempre fedele, onorando il suo sacrificio.
- Medea: andata in scena per la prima volta ad Atene, in occasione delle Grandi Dionisie, attorno al 431 a.C., Medea è una delle tragedie più celebri dell’antichità classica. Forse è uno dei drammi che, nei secoli, ha trovato più imitatori, il poeta latino Ovidio la riprese nelle Metamorfosi e nei Fasti, nel Novecento Pasolini la celebrò in un film con protagonista un’indimenticabile Maria Callas. Il mito di Medea vive, anzi, nel tempo è diventato un’icona, tramandata anche dalla psicoanalisi come sindrome della madre assassina. Euripide trasse la storia di Medea, sacerdotessa figlia del re della Colchide, da varie leggende, in particolare dal mito degli Argonauti: Medea, moglie tradita di Giasone, ucciderà i suoi figli per punire il marito che l’ha ripudiata per sposare un’altra donna. A causa del suo atroce delitto, della vendetta compiuta in nome della gelosia, Medea è stata occasione di varie rivisitazioni nel corso dei secoli: la tragedia si ripropone sempre attuale nel raffigurare il grido di dolore di una donna - molti oggi ci leggono anche un rifiuto del ruolo di madre rileggendo la tragedia in un’ottica protofemminista.
- Le Troiane: rappresentata per la prima volta nel 415 a.C., anche questa appare come una tragedia strettamente contemporanea, soprattutto per la visione dell’insensatezza della guerra. Sul palcoscenico troviamo Ecuba, Cassandra, Andromaca, alcune delle protagoniste femminili dell’Iliade di Omero, che ripercorrono, attraverso la loro voce, le vicende della guerra appena conclusa. Si tratta di un dramma carico di violenza, ma anche di dignità umana. La sorte forse più atroce spetterà ad Andromaca che, dopo aver patito la morte del marito Ettore, si vede strappare dalle braccia il figlioletto Astianatte che viene gettato dalle mura di Troia perché non possa crescere e vendicare il padre. Alla fine il cadavere di Astianatte verrà restituito alla nonna Ecuba che lo stringerà tra le braccia mentre le prigioniere vengono portate via da Troia in fiamme. Il bambino, avvolto in un telo bianco, diventa il simbolo di tutti i bambini innocenti morti a causa delle guerre. Euripide in questa tragedia mette in scena la dignità dei vinti, degli sconfitti, tramite la voce di donne straziate dal dolore che ci rivelano, tramite il loro pianto che c’è ma non si vede, tutta la brutalità della guerra.
- Le Baccanti: infine arriviamo alle Baccanti, l’opera composta dal poeta durante il suo volontario esilio in terra macedone alla corte del re Archelao. Euripide morì poco dopo averla completata e questo fatto alimentò la leggenda riguardo la sua morte, secondo cui il tragediografo fu ucciso da un gruppo di donne nel cuore della notte.
In quest’ultima tragedia, che sarebbe stata rappresentata postuma nel 405 a.C., Euripide mette in scena uno dei temi cardine del suo teatro, ovvero il conflitto tra razionale e irrazionale, tra amore e follia. Le protagoniste di questo dramma sono infatti le seguaci del dio Dioniso, che si abbandonano a un rito di follia collettiva in onore del loro patrono. Nella tragedia le donne regrediscono allo stato di natura, corrono nei boschi, si vestono di pelli di animale e allattano cuccioli di lupo, dimenticando i mariti e i neonati lasciati nelle loro case. Nella loro folle danza le Baccanti riassaporano la beatitudine della condizione originaria, dimenticando sé stesse. Queste donne - che infine verranno riportate all’ordine - rappresentano la follia, qui intesa in senso liberatorio e quasi benefico, ma anche la ribellione femminile a una società basata su leggi maschili. Anche per questa sua peculiare chiave di lettura Le Baccanti è considerata una tragedia contemporanea.
Per la prima volta Euripide, attraverso le sue tragedie, lascia intravedere un punto di rottura, uno spiraglio di evasione all’ordine precedentemente costituito, permettendo così all’umano di insinuarsi nei territori inesplorati dell’irrazionale che trionfa sulla ragione e della follia.
C’è qualcosa, nel profondo dell’umano, che sfugge a ogni regola o tentativo di civilizzazione: questo mistero oscuro, forse Euripide fu il primo a intuirlo e lo fece ponendo al centro del suo dramma una visione femminile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Euripide: il tragediografo greco che diede voce alle donne
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