Nasceva a Roma nel novembre 1916 una grande poetessa italiana: Fernanda Romagnoli. Oggi pochi ricordano il suo nome, ma la sua poesia è dotata della stessa intensità delle liriche di Carducci, dell’impulso metafisico di Leopardi, dell’estetismo D’Annunziano, cui si aggiungono caratteristiche estremamente moderne. Perché Fernanda parlava di inappartenenza - ma non quella cara a Montale, la sua era di un altro genere: nasceva dall’esclusione, dal percepirsi fuori posto nel mondo, dalle domande laceranti e angosciose sulla propria condizione di moglie e di madre, dall’incapacità di aderire al patetico teatrino pubblico delle finzioni sociali. Fernanda Romagnoli aveva un’indole riservata, solitaria, solo nella poesia ritrovava la propria libertà, quella “maniera di esistere” che in vita sentiva che le era negata.
In una delle poesie più belle, dal titolo Il tredicesimo invitato, narra in maniera sublime questa sensazione di estraneità raccontando di un uomo che, invitato a un banchetto, scopre in ultimo che al suo posto si è seduta un’ombra.
Attilio Bertolucci definì la poetica di Romagnoli come uno scontro tra il quotidiano e il visionario. E forse proprio in questi termini contrari, apparentemente ossimorici, troviamo tutta la prorompente contemporaneità di Fernanda Romagnoli che sapeva coniugare, come nessun altro, “lacerazioni” e “armonie”.
Fu sempre relegata ai margini del mondo letterario; in vita ebbe un breve periodo di notorietà, ma poi il suo nome si smarrì nell’oblio, nella vasta schiera delle poetesse dimenticate che popolano la storia.
Lei stessa non si sarebbe stupita di questo destino di silenzio, in una sua celebre poesia, dal titolo Falsa identità, scrisse profeticamente:
Prima o poi qualcuno lo scopre:/io sono già morta/da viva.
Ma le sue parole la tirano fuori dall’ombra, ci dicono che lei è esistita, che lei esiste. Di recente le sue poesie sono state riportate al grande pubblico grazie all’impegno della casa editrice pugliese Interno Poesia che ha pubblicato La folle tentazione dell’eterno, un’ampia raccolta dei suoi versi, con una bella introduzione a cura di Paolo Lagazzi che paragona Romagnoli alle poetesse “supreme” della contemporaneità, quali Sylvia Plath e Alejandra Pizarnik. A differenza dei loro, però, il nome di Fernanda Romagnoli è rimasto sconosciuto, così come la sua storia. Chi la decide questa regola dell’oblio? Perché questa grande poetessa italiana è stata travolta dal fiume della dimenticanza?
Chi era Fernanda Romagnoli
Fernanda Romagnoli nacque a Roma il 5 novembre 1916 in una famiglia piccolo-borghese. Compì gli studi da privatista e prese il diploma magistrale; ma la sua passione era la musica, frequentò il Conservatorio di Santa Cecilia e prese il diploma in pianoforte a soli diciotto anni.
Terminati gli studi iniziò a lavorare come impiegata e nel 1943, mentre infuria l’inferno della Seconda guerra mondiale, pubblicò il suo primo volume di versi intitolato Capriccio con una prefazione a cura di Giuseppe Signorelli.
Nel 1948 Fernanda convolò a nozze con Vittorio Raganella, un ufficiale di cavalleria. In una poesia lo definì “uno sposo, giusto a suo modo”. Per anni la sua vita fu legata alla carriera del marito, spostato spesso da una parte all’altra d’Italia: Firenze, Caserta, Pinerolo, paesini di montagna, poi di nuovo Roma. Lei manteneva la sua autonomia continuando a lavorare come maestra nelle scuole elementari. La coppia ebbe una figlia: Caterina, ma Fernanda si sentiva inadeguata nel ruolo di moglie e madre e con la bambina sviluppò un rapporto difficile. In alcune poesie ritrae la piccola Caterina con aggettivi non propriamente amorevoli, la descrive gaia e spensierata, ma anche difficile, talvolta fastidiosa mentre la sveglia di soprassalto sbattendo un cucchiaio. Alla poetessa va il merito di aver descritto la maternità nel suo lato più vero e meno idilliaco, ma anche più umano. La piccola Caterina, nelle sue parole, è “un’ardita piccola rosa” che cresce e continuamente le sfugge, le scivola via dalle dita.
Una figlia ebbi, un’ardita
piccola rosa che già fugge e assalta
la sua scala di spine troppo in fretta
(così pare al mio cuore)
Nel 1965, durante il periodo di permanenza a Caserta, pubblicò la sua seconda raccolta Berretto rosso. La terza, dal titolo Confiteor, sarà edita negli anni Settanta grazie all’appoggio dell’amico Attilio Bertolucci. In questi anni Romagnoli iniziò a scrivere su diverse riviste letterarie di prestigio, tra cui La Fiera Letteraria e Forum Italicum.
Romagnoli sentiva sempre di “vivere in disparte”, come titola una delle sue raccolte più belle Il tredicesimo invitato, edita nel 1980 da Garzanti e molto amata da Vittorio Sereni che si adoperò per farla conoscere il più possibile. Forse la sua silloge di maggior successo, che le donò un breve spiraglio di notorietà in vita e fu rieditata nel 2003 dalla casa editrice Scheiwiller.
Fernanda Romagnoli morì all’età di settant’anni, a Roma, nel giugno 1986, presso l’Ospedale Sant’Eugenio. Da tempo, però, il dolore era un suo fedele compagno di vita; un’epatite contratta durante la guerra l’aveva condannata ad anni di infermità, costringendola a sottoporsi a interventi seri come un’operazione al fegato nel 1977. Definiva il dolore in versi “mia piaga, mio tormento, mio pugnale”. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da continui ricoveri ospedalieri. Pochi mesi prima della sua morte alcune sue poesie erano state ripubblicate sulla rivista Arsenale grazie all’interesse di Ginevra Bompiani.
Un ultimo omaggio a lei, che aveva saputo “smuovere le radici della parola”, componendo una musica misteriosa. Quella musica continua a suonare, nascosta e segreta come il canto di una conchiglia; l’anima di Fernanda Romagnoli non ha smesso di vibrare nell’accordo delle sue parole, la sua voce merita di essere riscoperta e salvata.
Lei che avrebbe dato tutta la sua vita per un “solo verso”:
che resti testimonio di me / un attimo posato sulla terra – lieve – come un coriandolo d’acqua.
La poesia di Fernanda Romagnoli
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La poesia di Fernanda Romagnoli è “un cuore che boccheggia”, “un’anima dimessa”, “il corpo che è un campo di battaglia”, ma anche una costante elevazione verso l’assoluto, l’irraggiungibile, l’eterno, il trascendente. Nei suoi versi si agitano due pulsioni contrastanti: la fragilità umana, le “rovinose cadute”, la materia viva, dolorosa, pulsante e la ricerca di un altrove, di un chiarore, di una speranza. Attraverso la parola poetica Fernanda si interroga, cerca risposte e “all’improvviso capisce” combinando sogno e visione.
Ti ho visto in sogno, spirito che mi abiti.
Dev’essere prerogativa assoluta di una poetessa, di ogni poetessa, questa conoscenza dell’invisibile, della propria “anima” che addirittura in una bella “poesia-ritratto” fa dire a Romagnoli: “ma il corpo non ero io”. La sua biografia ci parla di una vita tranquilla, ordinata e a tutti gli effetti “ordinaria”; eppure i suoi versi ci dimostrano un’identità forte, straordinaria, che ribolliva sotto la superficie apparente delle cose dove la natura, gli oggetti piccoli e quotidiani si fanno metafora di un’interiorità traboccante, indomabile, inespressa.
Riportiamo di seguito il testo della bellissima Il tredicesimo invitato, una poesia che si fa testimonianza della poetica di Fernanda Romagnoli. Parlava di “esclusione”, un sentimento tragicamente contemporaneo. Chissà quante altre donne nel cuore del Novecento hanno sperimentato questa condizione, senza riuscire ad esprimerla, sentendosi imbrigliate in un ruolo che non le definiva. Moglie, madre e che altro?
Un destino di donna accettato con passività, come l’unica maniera di vivere; eppure Fernanda Romagnoli faceva udire profondo il suo grido di inappartenenza, attraverso i suoi versi apre uno spiraglio possibile, una ribellione muta che sgomita per trovare spazio, respiro - e infine conquistare il cielo che è luogo dove si riversa, senza traboccare, l’infinito dell’anima.
Grazie – ma qui che aspetto?
Io qui non mi trovo. Io fra voi
sto come il tredicesimo invitato,
per cui viene aggiunto un panchetto
e mangia nel piatto scompagnato.
E fra tutti che parlano – lui ascolta.
Fra tante risa – cerca di sorridere.
Inetto, benché arda,
a sostenere quel peso di splendori,
si sente grato se alcuno casualmente
lo guarda. Quando in cuore
si smarrisce atterrito «Sto per piangere!»
E all’improvviso capisce
che siede un’ombra al suo posto:
che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.
Recensione del libro
Il tredicesimo invitato
di Fernanda Romagnoli
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Fernanda Romagnoli, la poetessa dimenticata
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