Il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-18014), continuatore del pensiero di Kant, è l’iniziatore dell’idealismo tedesco. Tra le sue opere più note si trovano Dottrina della scienza e Discorsi alla nazione tedesca: di cosa parlano esattamente?
Scopriamo insieme vita, pensiero e opere del filosofo tedesco.
Vita e opere
Fichte nacque nel 1762 in Sassonia in una famiglia molto povera, tanto che da bambino dovette lavorare come guardiano delle oche per aiutare i genitori. Iniziò a studiare solo grazie al sostegno di un barone locale, il barone von Miltitz, rimasto stupefatto dopo averlo sentito ripetere a memoria un sermone.
Nel 1780 Fichte si iscrisse alla facoltà di Teologia a Jena e proseguì gli studi a Lipsia, ma gli aiuti del barone, sempre più radi, lo costrinsero a lavorare come precettore per non cadere in miseria. Nel 1785 si trasferì a Zurigo, dove conobbe Johanna Rahn, sua futura moglie. Nel 1793 fu iniziato alla massoneria.
Solo nel 1790, tornato a Lipsia, Fichte scoprì la Critica della ragion pratica di Kant, in seguito alle richieste di un suo studente. Folgorato, Fichte scrisse il Saggio di una critica di ogni rivelazione e si diresse a Königsberg, per farla leggere allo stesso Kant. Per sua intercessione, l’opera venne pubblicata nel 1792, ma anonimamente: solo due anni dopo, quando Kant rivelò l’identità dell’autore, Fichte divenne celebre e fu chiamato a insegnare all’Università di Jena.
A Jena Fichte insegnò fino al 1798, quando dovette dimettersi per le accuse di ateismo (a ereditare il suo posto fu Schelling, suo studente e, tramite intercessione di Goethe, collaboratore). Nel corso di questi quattro anni scrisse la maggior parte delle sue opere più importanti: la prima edizione del Fondamento dell’intera dottrina della scienza risale al 1794, dello stesso anno è Discorsi sulla missione del dotto, del 1796 i Fondamenti del diritto naturale e del 1798 Sistema della dottrina morale.
Dopo il suo articolo Sul fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo, pubblicato nel 1798 sul "Giornale filosofico", scoppiò la cosiddetta "polemica sull’ateismo". Nell’articolo, Fichte considerava Dio solo come "dover essere", coincidente con l’ordine morale del mondo. Le accuse di ateismo (volte in realtà a screditare l’intero pensiero del filosofo) non si fecero attendere e, nel giro di poco, intervenne lo stesso governo prussiano, proibendo la stampa del giornale e chiedendo all’Università di Jena di formulare un rimprovero ufficiale, rivolto sia a Fichte sia al suo oppositore Forberg.
A questo punto, Fichte minacciò di lasciare la cattedra in una lettera privata. Venuto a conoscenza della lettera, il governo di Jena, "accettò" la sue dimissioni (ampiamente caldeggiate da Goethe).
Il filosofo si trasferì dunque a Berlino, dove si mantenne dando lezioni private e frequentò alcuni intellettuali romantici, tra cui Novalis, Schlegel, Schleiermacher e Tieck. Nel 1805 riprese a insegnare in università a Erlangen.
Quando nel 1806 Napoleone invase Königsberg, Fichte scrisse e lesse pubblicamente i Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), con l’obiettivo di risvegliare l’anima del popolo tedesco, considerato superiore, dalla dominazione napoleonica. Grazie all’opera il re lo nominò professore ordinario dell’Università di Berlino, di cui in seguito divenne rettore.
La moglie, che curava i soldati negli ospedali militari, si ammalò di colera. Nel giro di poco si ammalò anche Fichte, che morì nel 1814.
Pensiero
L’idealismo e la Dottrina della scienza
L’idealismo di Fichte celebra la libertà e l’indipendenza del soggetto rispetto a ciò che si trova al di fuori di lui: "il soggetto si fa da sé stesso". Pur partendo da Kant, Fichte critica dunque la concezione kantiana della "cosa in sé" (noumeno), posta al di fuori del soggetto: se la cosa in sé esistesse, costituirebbe un limite insuperabile per la libertà del soggetto e non ha senso ammettere che esista una realtà oltre la nostra possibilità di conoscerla. Il soggetto kantiano è per Fichte un soggetto passivo, che assiste a eventi che lo determinano, in una concezione materialista e fatalista.
Fichte ribadisce invece come lo spirito non sia prodotto dall’essere: per parlare di qualcosa è necessario averne una rappresentazione mentale. L’oggetto (il fenomeno) non è così il limite a cui dobbiamo fermarci a causa dell’impossibilità di conoscere il noumeno, ma diventa creazione del soggetto stesso: la realtà che ci circonda è prodotta da noi, soggetti pensanti. Ribaltando Cartesio, la formula per Fichte non è "cogito ergo sum (penso, dunque sono), ma "sum ergo cogito" (sono, dunque penso).
Del tutto opposta a questa concezione (detta, appunto, idealismo) è quella del realismo, per cui gli oggetti esistono indipendentemente da chi li conosce.
L’obiettivo di Fichte non è negare il criticismo kantiano, tutt’altro: il filosofo vuole dargli rigore e renderlo trascendentale per costruire un sistema filosofico che contenga le basi del sapere.
Dall’"io penso" e dalla legge morale di Kant Fichte elabora la propria concezione dell’Io e illustra i tre principi che regolano i rapporti tra soggetto e oggetto, articolabili dialetticamente in tesi, antitesi e sintesi.
- L’Io pone se stesso
Fichte muove da due principi cardine della filosofia antica e moderna: a differenza della filosofia aristotelica, che si fondava sul principio di non contraddizione (A ≠ non A), la filosofia moderna parte dal principio di identità (A = A). Entrambi devono però essere giustificati: serve che A venga affermata. Se non è data una A, entrambi i principi cadono. Solo in un modo questi due principi possono non essere ipotetici: quando A = Io. L’Io pone qualsiasi oggetto e pone se stesso, autoaffermandosi: Io = Io.
L’Io, per Fichte, non coincide con il singolo io empirico, ma è l’Io assoluto, che si articola poi nella molteplicità degli individui.
- L’Io oppone a sé un non-io
Sempre partendo dai due principi già esposti, Fichte elabora il suo secondo principio. Dire che A = A significa anche dire che A ≠ non A. Dunque, mentre l’Io si autoafferma, dice anche che, necessariamente, esiste qualcosa che non è Io e questo qualcosa non può che derivare da lui (se derivasse dall’esterno, si ricadrebbe nel dogmatismo della "cosa in sé" kantiana, da cui Fichte vuole allontanarsi): l’Io può esistere e porre se stesso solo distinguendosi dal non-io.
- L’Io oppone, in sé, a un io divisibile un non-io divisibile
Se Io e non-io costituiscono rispettivamente tesi e antitesi, Fichte elabora con il terzo principio una sintesi: Io e non-io sono divisibili. È la loro divisibilità a rendere possibile che si oppongano senza annullarsi.
Non esiste solo un Io assoluto (la coscienza generale), ma anche un Io empirico, un soggetto concreto e individuale. È in questo secondo soggetto che avviene la conoscenza della realtà: l’Io divisibile corrisponde all’umanità, il non-io divisibile la natura, tutto ciò di esterno all’uomo e alla sua coscienza.
Quando il soggetto (l’Io) determina l’oggetto (il non-io) si ha l’attività pratica (morale), l’azione; quando è invece l’oggetto a precedere il soggetto si ha l’attività conoscitiva.
Ogni essere umano, per Fichte, è animato dalla tensione infinita dello spirito alla libertà, che spinge gli uomini a superare costantemente i propri limiti. Il limite, nella conoscenza, ha una funzione fondamentale: senza di esso l’Io non avrebbe coscienza della sua libertà. La conoscenza è dunque costantemente un’azione, o meglio, uno Streben, lo sforzo infinito di spostare il limite tra Io e non-io, in cui l’importante non è essere liberi, ma farsi liberi.
"Essere liberi è cosa da nulla: divenirlo è cosa celeste."
La dottrina e la scienza sono la parte essenziale della società: il dotto, che ha raggiunto il culmine della sapienza, ha l’obbligo morale di diffondere il suo sapere e di presentarsi come modello di razionalità e moralità. È questa la tesi alla base di Lezioni sulla missione del dotto.
Lo stesso ruolo pedagogico, per Fichte, deve essere ricoperto dallo Stato nei confronti dei cittadini e, in ultimo, dalla Germania nei confronti degli altri stati.
La filosofia politica: Stato, diritto e libertà di pensiero
Se gli uomini agissero sempre moralmente, non servirebbe uno Stato pronto a controllare le azioni dei singoli. Considerato che ciò non accade, però, è necessario che uno Stato esista e che esso abbia il compito di regolare la società. Lo Stato ha il compito di educare gli uomini alla libertà, di rendere in definitiva superflua la propria stessa esistenza e di garantire a ciascun uomo i diritti naturali: vita (corporeità e conservazione), libertà e lavoro.
Obiettivo dello stato è dunque garantire il sostentamento di ognuno ed eliminare la povertà. Per farlo, il governo può intervenire nei vari settori lavorativi, con il fine ultimo di rendere lo stato autosufficiente, perché solo uno "stato commerciale chiuso" sarà finalmente privo di conflitti interni ed esterni. Perché ciò si avveri sono fondamentali tre condizioni:
- che lo stato produca tutto ciò di cui ha bisogno;
- che lo stato distolga i cittadini dai beni che non può produrre o che imponga su di essi il monopolio, se importati;
- che lo stato raggiunga i suoi confini naturali, anche tramite la guerra.
La concezione di stato di Fichte è contrattualistica e giusnaturalista: il popolo con un contratto sociale conferisce allo stato il compito di far promulgare e rispettare le leggi. Il che significa che al popolo spetta anche il diritto di insorgere se tale compito non viene rispettato o viene rispettato in modo ingiusto. La libertà dunque non coincide solo come la libertà di ogni individuo di agire moralmente, ma anche come libertà di pensiero e di scelta.
Come il non-io contrasta l’Io, così ciascun uomo vede limitata la propria libertà dagli altri uomini e diventa perciò necessaria l’esistenza del diritto, in grado di regolare i rapporti le singole libertà reciproche. Il campo d’azione del diritto è quello che ha che fare con le libertà esteriori, oggettive, e non con quelle interiori e soggettive, che riguardano l’auto-realizzazione dell’Io.
Pubblicato anonimamente nel 1793, il saggio Rivendicazione della libertà di pensiero esprime in modo molto netto la posizione di Fichte riguardo libertà di stampa e libertà di pensiero. Le sue idee non furono però fin dall’inizio in questa direzione, anzi: solo due anni prima, a Danzica, Fichte stava scrivendo una difesa degli editti prussiani che limitavano la libertà di stampa e introducevano la censura. Solo quando gli furono negati i permessi per la pubblicazione del Saggio di una critica di ogni rivelazione il filosofo, indignato, capì la gravità della censura e mutò di posizione.
Dopo aver visto le truppe di Napoleone invadere Königsberg, Fichte estese per iscritto la missione del dotto alla Germania nei Discorsi alla nazione tedesca. Il filosofo non solo si appella all’unità dello Stato, ma ribadisce con forza la necessità che la Germania assuma un ruolo guida nei confronti delle altre nazioni.
Alla base della supremazia che Fichte riconosce nella Germania si trovano la sua lingua e la sua cultura, entrambe incontaminate. Questa purezza è per il filosofo prova di una purezza superiore, che ha a che fare con il sangue e la stirpe del popolo.
Il discorso di Fichte era principalmente culturale, ma il suo pensiero verrà poi strumentalizzato dal pangermanesimo (cui si rifece anche Hitler), sostenendo un primato anche militare e bellico.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Fichte: vita, opere e pensiero del filosofo
Lascia il tuo commento