Fotopsie
- Autore: Lavinia Frati, Roberto Ponzi
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2023
Quest’opera Fotopsie (Robin Edizioni, 2023) innanzitutto si contraddistingue sia per l’appropriatezza stilistica-testuale che per l’originalità dei vari nuclei tematici, che si intrecciano e si sovrappongono tra di loro.
Questo libro può avere diverse chiavi di lettura. La polisemia non è data solo dalle singole espressioni verbali ma è anche macrotestuale. La poetessa, Lavinia Frati, dimostra chiarezza espositiva, ma sa anche essere misteriosa. Ogni poesia lascia libero spazio all’interpretazione.
L’autrice sa essere complessa, ma mai complicata. Avendo letto altre sue raccolte posso affermare che, a mio avviso, sa sempre rinnovarsi e affrontare nuovi aspetti della vita. La sua poesia sa essere sfaccettata e viene declinata in varie modalità.
Le belle fotografie sono di Roberto Ponzi a testimoniare un’amicizia pluridecennale oltre che un sodalizio artistico. Per i motivi che elencherò questo libro è a mio modesto avviso un’ottima opera di poesia visiva, che riesce a essere innovativa, pur rimanendo ben salda alla tradizione sia della neolirica che della fotografia.
Il titolo di questa raccolta è indicativo ed emblematico: Fotopsie o fosfeni sono quei puntini luminosi soggettivi che si vedono ad occhi chiusi dopo essere stati ad esempio abbacinati dal sole o dei lampi di luce che si vedono in situazioni patologiche. Il pensiero corre subito a Fosfeni di Andrea Zanzotto, anche se nell’opera della Frati non c’è il paesaggio veneto, non ci sono i richiami intertestuali zanzottiani, ma qui le fotopsie sono anche metafora: la Frati ha gli occhi sempre aperti sul mondo e non ha niente di patologico, piuttosto le fotopsie in questo caso sono delle visioni, degli istanti di vita, spesso cittadina, catturati.
In questa raccolta c’è il plein air senza però pennellate impressionistiche; c’è una descrittività sobria, calibrata, che sfocia talvolta nell’astrattismo senza mai essere troppo concettosa. Ma questo astratto non è dato dall’idea ma dall’immagine che si può fare anche sfocata, dall’attimo che sfugge irreprensibile, chissà verso dove.
Talvolta in Fotopsie di Lavinia Frati e Roberto Ponzi vengono descritti certi attimi di sospensione, quegli istanti non colti pienamente dalla coscienza: ecco allora che le intuizioni sono inconsce e vengono mostrati i limiti percettivi, cognitivi, empirici dell’essere umano.
Queste poesie nascono quindi da delle impercezioni, ma finiscono talvolta per essere sapienziali, anche se non nell’accezione prettamente religiosa. Inoltre viene preso in esame anche un altro tratto della coscienza: l’assenza, intesa sia come fantasma psichico appena accennato che come momento di non consapevolezza sia percettiva che esistenziale. Insomma per chiarire il concetto riporto due versi di “Chanson egocentrique”, canzone di Battiato, interpretata da Alice:
Chi sono? Dove sono quando sono assente da me?"
La poetessa tratta proprio di questa assenza: l’assenza che, come scrive lei: “fa il più bel ricordo”.
L’autrice è sempre puntuale, precisa nel dettato; sa esattamente quali sono il peso specifico, il senso, la collocazione di ogni sua parola. Non mancano mai le parole, né ci sono mai parole di troppo per questa poesia; non difetta, né eccede mai, ma dimostra di avere il senso della misura, delle proporzioni, dell’armonia. Direi che sta consapevolmente sulla soglia del preconscio ad esprimere stati d’animo, impressioni, sentimenti, adoperando in modo efficace le figure retoriche. L’innovazione maggiore della Frati sta perciò nella posizione cognitiva ed esistenziale assunta e inoltre non c’è quasi niente che sfugge al caso, anche se talvolta la pregnanza dei testi è data dall’apertura all’assurdo del vivere, a ciò che ci trascende: è un’operazione intellettuale per niente convenzionale, perché di solito i poeti privilegiano l’inconscio, la rimozione dell’inconscio o il controllo razionale dell’inconscio, mentre qui abbiamo un’interazione continua, un dialogo incessante tra conscio e inconscio sia dal punto di vista percettivo che verbale. La Frati e Ponzi affrontano per l’esattezza i limiti della percezione, della coscienza, del dicibile, del rappresentabile a livello figurativo.
I problemi posti sono sia quello della povertà di stimoli della filosofia occidentale (come facciamo a conoscere così tanto con così poco?) che quello della fugacità delle impressioni, della pochezza e della precarietà delle tracce mnestiche e verbali che rimangono, ovvero del perché tratteniamo e conserviamo così poco.
Ma tutto ciò non significa che tutto sia studiato a tavolino, perché c’è molta spontaneità, molta genuinità sia nelle singole espressioni verbali che nella gestalt globale. Ho l’impressione che ci siano una regia sapiente, un canovaccio definito, ma che poi venga lasciata libera la creatività. E qui c’è un altro gioco, tutto basato su un possibile doppio registro: non si sa se le poesie corredino le fotografie o viceversa, se ci sia ecfrasi oppure ecfrasi al rovescio, perché qui c’è un continuo, incessante rimando tra immagine e segno, che potrebbe interessare i professori di semiotica.
Tutto ciò corrobora l’idea che mi ero già fatto di una delle caratteristiche salienti della poesia della Frati, ovvero l’icasticità, il suo partire dall’immagine e finire nel segno o viceversa: un percorso figurativo-linguistico, che diventa segno-immagine e perciò assurge al simbolico. Ma abbiamo anche un ulteriore elemento, perché immaginario e reale formano il simbolo, che a sua volta esprime nuovo immaginario.
Così possiamo anche intendere che l’assenza di cui trattano la Frati e Ponzi sia anche l’assenza del reale talvolta, che crea immaginazione, la quale crea nuova poesia.
In questo libro non abbiamo il tema leopardiano che dell’infinito giunge all’indefinito, ma quello meno conosciuto dell’indefinito che giunge al limite.
In questi componimenti si vede sia la testimonianza del dolore esistenziale (“potessi dimenticare il mondo” perché il mondo fa anche male) che il gioco di specchi di alta scuola. Non solo ma in “Fotopsie” di Lavinia Frati e Roberto Ponzi c’è anche spazio per “poesie che fanno male”, come scrive nell’ottima prefazione Carla Manzocchi. Troviamo infatti sentenze amare ma vere sulla vita. Riassume l’illogicità, lo smarrimento di quest’epoca il verso “viviamo in territori incerti”: l’incertezza percettiva è quindi diventata esistenziale, epocale, ontologica, cosmica.
La poetessa quindi dimostra la sua versatilità perché spazia dal non colto pienamente, dal riportare alla luce l’inconscio percettivo allo gnomico.
C’è anche amore per la vita, per tutti i suoi aspetti, senza mai moralismo, perché per dirla con la Frati anche “l’amore è solo un appetito naturale”.
Ma quel che interessa alla fine non è se la parola abbia fatto scaturire l’immagine o viceversa, ma che entrambe, messe assieme, diano luogo a un lavoro poetico molto interessante, a un connubio eccellente, a una poesia dall’esito felice.
Per concludere riportiamo una splendida poesia:
Viviamo in territori incerti
Viviamo in territori incerti
in giorni persi, come alla bufera,
inseguendo un viso
apparso da lontano, con la mente chiusa
al disinganno di non saperne dire
il nome. Rimane il sogno
improvviso
d’essere qui, per caso,
il corpo dilaniato nell’allaccio,
un’unica figura che toglie aria al vuoto,
la mano appesa al firmamento
ricadere sul corpo
tuo che diventa il paradiso,
bene che spinge al sole,
tra le rose, falcata mossa al lume
e sei vicino.
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