In questa vita, morire non è una novità/ Ma, di certo, non lo è nemmeno vivere.
Così aveva scritto il poeta russo Sergéj A. Esénin (1895–1925) che, all’età di trent’anni, una notte s’impicca al calorifero di una camera d’albergo.
Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo.
A fare eco alle parole di Esénin è il testo del biglietto d’addio dello scrittore e drammaturgo austriaco Stefan Zweig (1881-1942) scritto poco prima di suicidarsi, con un’overdose di barbiturici, insieme alla sua seconda moglie.
Di anni ne ha quarantadue Cesare Pavese quando s’avvelena il 27 agosto 1950 in una stanza d’albergo a Torino, lasciando un drammatico biglietto d’addio:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
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Simile nella forma e nel contenuto a quello lasciato da Vladimir Majakovskij (1893–1930) quando, il 14 aprile 1930, decise di togliersi la vita con un colpo di pistola al cuore:
A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi.
Davide Lajolo ha coniato la definizione letteraria di “vizio assurdo”, che dà il titolo alla sua biografia di Cesare Pavese, ed è diventata l’espressione più in uso nel descrivere la volontà di auto-annientamento di scrittori, poeti e artisti che decidono di togliersi la vita o di annullarsi, travolti da un senso di solitudine e di disperazione, facendo uso di alcol e droghe.
Il suicidio: da Platone a Foscolo
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Psichiatri, sociologi, antropologi, filosofi e teologi, per dirne alcuni, hanno tentato di trovare una risposta alle motivazioni e ai disagi che spingono gli individui al suicidio.
Platone nelle Leggi condanna chi si toglie la vita e ne vieta la sepoltura pubblica:
Ma chi uccide la cosa che gli è più propria, la cosa che, si dice comunemente, gli è più cara? Che cosa dovrà patire? E intendo chi se stesso uccide, sottraendosi con violenza al destino che gli è assegnato.
Nel Fedone, uno dei più celebri Dialoghi, Platone condanna il suicidio come fuga dal carcere del corpo pure se per “alcuni è meglio morire che vivere.
Lo stoico Seneca, invece, nelle Lettere a Lucilio afferma che il suicidio è la rottura dei catenacci della servitù umana ed è la via per raggiungere la libertà.
Nella genesi del suicidio gioca un ruolo importante la componente emulativa: è noto a partire dall’Ottocento il cosiddetto effetto Werther con l’incremento di suicidi a seguito della pubblicazione del romanzo I dolori del giovane Werther, edito nel 1774, di Goethe. Il personaggio, che si suicida con una pistola, è il modello di eroe romantico, artista tormentato.
La stessa azione è compiuta dal giovane protagonista de Le ultime lettere di Jacopo Ortis:
S’era piantato un pugnale sotto la mammella sinistra.
La prima edizione del romanzo è del 1798 e qui è Foscolo a emulare Goethe.
Se Dante dovesse riscrivere il Canto XIII dell’Inferno condannerebbe, come fece con il poeta Pier della Vigna, gli scrittori e i poeti del Novecento che si sono suicidati?
Gli scrittori e il “male di vivere”: gli autori che si sono tolti la vita
La storia della letteratura mondiale è stata scritta anche con il sangue di chi si è tolto la vita o di chi l’ha perduta scialacquando i propri talenti. Chi troveremmo oggi, trasformato in piante tossiche, nell’orrenda selva dei violenti contro sé stessi e dei violenti contro le proprie ricchezze?
L’elenco è lungo, lunghissimo. Gli scrittori, e in più generale gli artisti e gli intellettuali (pittori, musicisti, cantanti, attori, registi, fotografi, filosofi), senza alcuna sostanziale differenza di genere, sono le anime più sensibili e più fragili sottomesse al vizio assurdo, al male o alla fatica di vivere.
Ne cito alcuni: Diane Arbus, Lilja Brik, Janis Joplin, Arthur Koestler, Paul Celan, Mario Monicelli, Gilles Deleuze, Carlo Lizzani, Memè Perlini, Marilyn Monroe, Luciano Bianciardi, Nadia Campana, Luigi Vannucchi.
Lo scrittore Guido Morselli (1912-1973), che in vita non era riuscito a pubblicare neppure uno dei suoi romanzi, si uccide con una pistola Browning 7.65 che aveva chiamato la sua “ragazza dall’occhio nero”. Quel che più lo rattristava non era la mancanza di una donna, ma era il senso del rifiuto, dal silenzio all’indifferenza, dell’editoria italiana.
Lucio Mastronardi (1930-1979), l’autore del Maestro di Vigevano si annega nel Ticino, come fece la scrittrice inglese Virginia Woolf (1882 – 1941) che si annegò, dopo essersi riempita le tasche di sassi, nel fiume Ouse. Nella Senna, invece, si affogò il poeta Paul Celan (1920-1970).
La poetessa Amelia Rosselli, “Melina”, (1930–1996), il giorno 11 febbraio 1996 - lo stesso giorno che la poetessa Sylvia Plath scelse per dire addio alla vita con la testa dentro un forno da cucina - spalancò la finestra della sua piccola mansarda romana in via del Corallo per tentare di volare, ma Le ali della libellula, come titola il poemetto che scrisse nel 1958, non ressero il peso del suo corpo.
Nella tromba delle scale del palazzo dove abitava a Torino si gettò Primo Levi (1919–1987).
La poetessa Antonia Pozzi (1912- 1938) una sera nevosa di dicembre ingurgitò una manciata di sonniferi e inforcò la bicicletta per pedalare fino all’abbazia di Chiaravalle dove si addormentò per sempre su un prato coperto di neve.
Emilio Salgari (1862-1911), il padre del Corsaro Nero e di Sandokan, la mattina di martedì 25 aprile a Torino, in uno dei burroncelli del bosco di Val San Martino, si uccise come un samurai con gli occhi rivolti al sole squarciandosi il ventre e tagliandosi la gola con un rasoio. Nella tasca della giacca aveva una penna spezzata e una lettera di accuse ai suoi editori che lo avevano sfruttato.
Ernest Hemingway (1899–1961), premio Pulitzer per il romanzo Il vecchio e il mare, la mattina della domenica del 2 luglio si sparò mettendosi la canna del fucile in bocca.
Le vite interrotte degli scrittori
La ricchezza di uno scrittore è rappresentata dalle proprie opere e chi si toglie la vita sperpera i talenti ricevuti. Il destino interrotto di uno scrittore non riguarda solo la propria vita ma anche l’interruzione della propria opera.
Quale sarebbe stato il nuovo romanzo di Mastronardi se non si fosse annegato nel Ticino? O quello di Pavese se non avesse ingerito dieci bustine di barbiturici? E cosa avrebbe scritto Luciano Bianciardi se avesse smesso di bere? E Amelia Rosselli – Melina – aveva nel cassetto nuove poesie prima di gettarsi nel vuoto? Jack Kerouac (1922-1969) l’autore di On the Road, oggi, dopo la fine della beat generation, cosa ci avrebbe donato se non avesse fatto uso di alcol e di anfetamine fino a morirne?
Il suicidio nel “Canto XIII” dell’Inferno
Scrive Natalino Sapegno nell’introduzione al Canto XIII dell’Inferno (La Nuova Italia Editrice, 1968) che Dante e Virgilio:
S’inoltrano in un paesaggio strano e crudele: una selva di alberi contorti e di colore fosco, spogli di verde e irti di spine attossicate (…) Lamenti umani, che si sprigionano dai rami lacerati, s’alternano con i queruli versi dei lugubri uccelli; mentre fra l’intrico fitto delle piante trascorrono in fuga ombre atterrite, incalzate dappresso da mute di cagne feroci.
Dante ha trasformato i violenti contro sé stessi in sterpi, e costoro neppure dopo il giudizio universale torneranno a rivestirsi del corpo perché, togliendosi la vita, hanno rifiutato la loro condizione umana.
“Uomini fummo, e ora siam fatti sterpi” .
Nella selva del secondo girone, nel settimo cerchio, oltre ai suicidi, ci sono pure le anime degli scialacquatori, coloro che hanno dissipato con i vizi le loro sostanze materiali.
Posseggo una rara edizione in vinile – un 33 giri dell’antica casa discografica Cetra – della Divina Commedia, una serie scolastica della fine degli anni Cinquanta, con le letture dei Canti da parte di grandi attori come Arnoldo Foa, Achille Millo, Romolo Valli, Tino Carraro.
Il Canto XIII è letto, con una magistrale interpretazione, da Giorgio Albertazzi (1923-2016) che trascina l’ascoltatore, anzi lo porta con sé sul centauro Nesso in quella selva orrenda popolata da arpie che si nutrono delle sterpi e da nere cagne che lacerano le carni dei dissipatori.
Dante dedica la fine del Canto XIII dell’Inferno all’incontro con l’anima di un anonimo fiorentino che si era impiccato nel segreto (la solitudine) della sua casa:
“Io fei giubbetto a me delle mie case”.
Così fece la poetessa russa Marina Cvetaeva (1892-1941) quando in un giorno d’agosto s’impiccò nell’ingresso della sua casa, e solo a partire dagli anni Sessanta la critica di accorse di lei.
Oggi l’anonimo fiorentino potrebbe rappresentare simbolicamente gli scrittori e i poeti sconosciuti, coloro che non hanno avuto successo e per questo anonimi, dunque senza nome, ignoti al grande pubblico dei lettori.
Io ne ho conosciuti alcuni, come Luigi Z., amante dei poeti della beat generation, che scialacqua la sua vita con le droghe pesanti per poi morire di AIDS, scrivendo nel febbraio del 1980:
...urlavamo i nostri folli discorsi/complici di spiazzi & di passi/di cassetti socchiusi & piume...
E Luciano G. che scelse di togliersi la vita avvolgendo la testa in un sacchetto di plastica. Qualche tempo prima aveva scritto e pubblicato su un libricino di anonimi poeti la poesia Prima di impiccarmi al tubo del calorifero.
Quella poesia l’aveva scritta pensando al poeta Sergéj A. Esénin che s’impiccò in una camera d’albergo di Leningrado con la cinghia di una valigia ai tubi del riscaldamento centrale.
La notte prima del suicidio Esenin aveva scritto col proprio sangue una poesia d’addio: Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Mio caro, sei nel mio cuore.
Questa partenza predestinata
Promette che ci incontreremo ancora.
Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola
Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.
In questa vita, morire non è una novità,
Ma, di certo, non lo è nemmeno vivere.
Il suicidio e il senso dell’assurdo secondo Camus
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Forse gli artisti, i poeti e gli scrittori cercano con le proprie opere di interpretare e di trovare una soluzione al tema misterico dell’assurdo quando, specchiandosi in se stessi, vedono la propria vita stonata e sorda.
Il termine “assurdo”, secondo l’enciclopedia Treccani, deriva dal latino absurdus, “stonato”, derivazione di surdus “sordo”: che è contrario alla ragione, all’evidenza, al buon senso.
Uno scrittore, un poeta, un pittore affrontano l’angoscia esistenziale e l’irrazionalità della condizione umana con la prosa, la poesia o un dipinto che sono mezzi diversi e dissonanti - e misterici - dai mezzi espressivi logici e razionali del cosiddetto linguaggio della normalità e della ragionevolezza dei molti.
Concludo questo articolo con l’incipit del saggio Il mito di Sisifo di Albert Camus:
Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.
Camus più avanti scrive che il suicidio:
Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo (…) L’argomento del presente saggio è appunto il rapporto fra l’assurdo e il suicidio, la misura esatta nella quale il suicidio sia una soluzione dell’assurdo.
leggi anche
Il mistero della tragica morte di Albert Camus
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Gli scrittori e il suicidio: la storia di un “vizio assurdo” da Dante a Camus
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