Il grido inascoltato di Antonia Pozzi ci giunge ora con l’evidenza simbolica di una poesia. Parole fatte di vento che sembrano attraversare l’infinito vuoto dei secoli e restituirci, ancora intatto, il timbro inconfondibile di una voce.
È l’anima di Antonia che canta attraverso questi versi, affermando la propria verità umana e spirituale, restituendoci un cuore pulsante e sanguinante di vita e di dolore.
Si tratta di una lirica intangibile, astratta, che sembra propagarsi nell’aria proprio come un’onda sonora, vibrare nella spazio invisibile che separa noi che leggiamo - o forse sarebbe meglio dire, “ascoltiamo”? - e colei che proferisce queste parole e le eterna, scrivendole su un foglio con un inchiostro indelebile come una ferita tanti anni fa.
Il grido di Antonia Pozzi traduce in versi un’angoscia esistenziale moderna, simile a quella ritratta in un capolavoro dell’arte quale L’urlo (1910) del norvegese Edvard Munch: ad accomunare la poesia e il quadro è la medesima inquietudine e anche una “ventata di malinconia” che sembra attraversare e percorrere la tela dipinta e anche lo spazio bianco tra le lettere della pagina. Così come L’urlo di Munch, anche Il grido di Antonia Pozzi ci attraversa, ci interroga, ponendoci infine nel mezzo di una verità lacerante. Nel famoso quadro di Munch non è solo l’uomo - tra l’altro irriconoscibile e spettrale come un fantasma, eppure era l’autore stesso - a urlare, ma anche la natura circostante espressa attraverso colori strillanti e pennellate vorticose.
L’inquietudine - l’urlo del titolo, Skrik, nell’originale norvegese - attraversava come un brivido l’intero quadro, si allargava lungo la superficie come una ferita; lo stesso accade al Grido di Pozzi che si dilata sino ad acquisire progressivamente una dimensione esistenziale e, infine, universale.
Se L’urlo di Munch anticipava il crollo psicologico del pittore (c’era un’avvisaglia precisa e non solo simbolica, a ben vedere, poiché nella prima versione del 1893 il pittore scrisse: “Poteva essere dipinto soltanto da un pazzo”); forse anche ne Il grido possiamo cogliere una profezia del suicidio della poetessa, questa evidenza oggi ci fa leggere la poesia come un richiamo tragicamente inascoltato.
Grido fu scritta nel febbraio del 1932, sei anni prima della morte di Antonia Pozzi, tuttavia può essere letta come un presagio della sua fine, sono emblematici soprattutto i versi centrali: “essere senza domani - ed acciecarsi nel nulla”.
È contenuta nella raccolta Parole (edita per la prima volta da Mondadori nel 1948).
Vediamone testo, analisi e significato.
“Grido” di Antonia Pozzi: testo
Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono –
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
– aiuto –
per la miseria
che non ha fine –10 febbraio 1932
“Grido” di Antonia Pozzi: analisi e significato
In questa breve poesia, datata 10 febbraio 1932, Antonia Pozzi sta esprimendo un “male di vivere” di montaliana memoria che, proprio come nella celebre poesia del poeta ligure, giunge all’apoteosi attraverso l’espressione della “divina indifferenza”.
“Non avere Dio”, inizia così il lacerante grido esistenziale di Antonia Pozzi che, sin dall’incipit, esprime la completa assenza di punti di riferimento, la confusione, lo smarrimento e, non da ultimo, la solitudine dell’essere umano chiamato a fronteggiare, nudo, la propria fragilità. A essere protagonista è l’uomo che ha perso Dio: l’ultimo uomo di Nietzsche, il compimento del nichilismo simbolo del secolo breve, del Novecento, ma forse anche di un’angoscia esistenziale prettamente contemporanea.
Il secondo tema chiave contenuto nella lirica è il tempo, che qui sembra farsi espressione della locuzione latina: tempus fugit. È il tempo a essere protagonista nella parte centrale della poesia, muove i versi con la forza di un vento agitatore, proprio come le pennellate vorticose e accecanti che fanno da sfondo al quadro di Edvard Munch. Le coordinate spazio-temporali si frantumano e infine si annullano: non esiste passato, non esiste futuro, c’è solo il presente che si converte in un grido d’aiuto.
essere senza ieri
essere senza domani
Viene spesso letta come una poesia sull’assenza di futuro, ma in realtà è soprattutto una poesia di negazione, un perfetto compendio di nichilismo.
L’analisi retorica ci aiuta a comprenderlo, in quanto Antonia Pozzi si serve delle reiterate anafore “non avere” ed “essere senza” che scandiscono impietosamente i due tempi della lirica e infine culminano nel sintagma isolato: “miseria” che sembra lacerare la pagina. I frequentienjambements dilatano lo spazio del verso e sembrano permettere al grido intangibile della poetessa di propagarsi nel silenzio e giungere sino a noi come un rumore sordo, un “urlo muto” soffocato nelle lacrime.
Questa poesia, scritta da Antonia Pozzi a soli vent’anni, sembra già essere un testamento: la parola “tomba” fa un’apparizione fugace nei versi, una specie di incursione sinistra, si prefigura già come una visione. Il grido di Pozzi è il canto di un’anima inquieta che sembra ancora agitarsi nel vento, tenace e irrisolto come tutte le profezie che, prima o poi, si avverano.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Grido” di Antonia Pozzi: la poesia che traduce l’angoscia moderna
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