Una macchia rosso sangue in una stanza candida. Sono i tulipani che vengono consegnati a Sylvia Plath dopo un intervento chirurgico per appendicectomia, come augurio di pronta guarigione. Le infermiere premurosamente li ripongono in vaso accanto a lei, che rimane sul letto immobile, distesa. È il 1961, osservando questi fiori variopinti in netto contrasto con il bianco immacolato delle pareti e della sua anima, Sylvia Plath prende gradualmente coscienza della propria condizione di alienazione rispetto al mondo che la circonda. “Io non volevo fiori”, scrive la poetessa e la sua voce sembra fuoriuscire dalla pagina come un flebile sussurro. Nasce così la poesia dal titolo Tulipani in cui il ridente bouquet fiorito, meglio di ogni altra metafora, riesce ad esprimere l’esperienza della malattia e la struggente ricerca dell’assoluto che attanagliava l’animo di Plath. Tutto è giocato sul contrasto tra il rosso sanguigno, vitale dei fiori e il candore della camera d’ospedale dove la poetessa vorrebbe giacere vuota, anestetizzata dagli urti della vita. Da un semplice mazzo di fiori avvolti nelle confezioni plastificate che si consegnano, come un rito, ai malati in stato di convalescenza trae origine una delle liriche più famose e acclamate di Sylvia Plath.
La poesia Tulips , fu scritta tre anni prima del suicidio, ed è tratta dalla raccolta più celebre della poetessa, Ariel, qui proposta nella traduzione molto letteraria di Giovanni Giudici.
“I tulipani” di Sylvia Plath: testo
I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, tutto quieto e innevato.
Sto imparando la pace, da me quietamente posando
come posa la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
lo non sono nessuno; non c’entro con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere
e all’anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio corpo.Tra guanciale e risvolto del lenzuolo han puntellata la mia testa
come un occhio tra due palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, tutto deve sorbirsi.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come gabbiani all’entroterra nelle loro cuffie bianche,
con mani affaccendate, identiche l’una all’altra,
così che è Impossibile contare quante sono.Per loro il mio corpo è un ciottolo, vi attendono come l’acqua
tende ai ciottoli sui quali deve scorrere, gentilmente levigandoli.
Mi portano il torpore nei loro lucenti aghi, mi portano il sonno.
Adesso ho perduto me stessa sono stufa di fardelli –
la mia ventiquattrore di pelle come un nero portapillole,
mio marito e il bambino sorridenti dalla foto di famiglia;
mi agganciano la pelle i loro sorrisi sorridenti ami.Ho gettato cose a mare, io cargo di trent’anni
testardamente attaccata al mio nome e indirizzo.
Hanno passato una spugna sui miei affetti.
Impaurita e nuda sulla verde barella plasticata
ho guardato la mia teiera, i miei portapanni, i miei libri
sparire affondando e l’acqua si è chiusa sul mio capo.
Sono una monaca adesso, non sono mai stata così pura.lo non volevo fiori, volevo solamente
giacere a palme riverse ed essere tutta vuota.
Come si è liberi, liberi da non credersi.
La pace è così grande che abbaglia,
e non chiede nulla, un’etichetta col nome, pochi aggeggi.
È il finale a cui approdano i morti; me li figuro
inghiottirselo come un’ostia da comunione.I tulipani sono troppo rossi, mi fanno male.
Anche sotto la carta li sentivo respirare
lievi, sotto la bianca fasciatura, come un bebè mostruoso.
La loro rossezza parla alla mia ferita, gli risponde.
E sono infidi: sembrano galleggiare, benché mi tirano giù,
sconvolgendomi con le loro lingue imprevedute e il colore,
dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.Nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata.
A me i tulipani si volgono e dietro me alla finestra
dove una volta al giorno si allarga e si assottiglia la luce
e io mi vedo, piatta buffa ombra di pupazzo ritagliato
fra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
e non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani divorano il mio ossigeno.Prima del loro arrivo l’aria era calma abbastanza,
andava e veniva, respiro su respiro, senza trambusto.
Poi loro l’hanno riempita come un gran chiasso.
Adesso l’aria si rompe e vortica quale un fiume
si rompe e vortica su una macchina affondata rossa di ruggine.
Concentrano la mia attenzione che era prima felice
di giocare e riposare senza impegnarsi.Le pareti, anche loro, sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero stare in gabbia come bestie feroci;
sì aprono come la bocca di un grande felino africano
e io mi accorgo del mio cuore che apre e chiude
la sua ampolla di rossi bocci per puro amore di me.
L’acqua che assaggio è calda e salata, come il mare,
e viene da un paese lontanissimo come la salute.(traduzione di Giovanni Giudici)
“I tulipani” di Sylvia Plath: analisi e commento
La scena sembra quasi fuoriuscire da un quadro: la stanza è candida, tutto è bianco, persino la donna distesa nel letto è bianca, pallida, indebolita dalle medicine e dalla stanchezza. Ha i capelli chiari che si confondono con il candore del cuscino, lunghe mani bianche affusolate che osserva muoversi trasparenti nella fioca luce che entra dalla finestra. In questa scena immacolata ecco che fa irruzione un elemento di disturbo: i tulipani rossi.
I fiori vengono riposti in un vaso, con premura, dalle solerti infermiere. Sylvia Plath li osserva con fastidio, li percepisce come un elemento di disturbo, le loro larghe corolle rosse allargano la sua pena, il suo disagio, sono come una macchia sanguigna che si allarga sulla sua pelle diafana. Quei rossi fiori variopinti rappresentano l’irruzione del mondo esterno nella sua condizione di solitudine, rompono l’incanto della sua pace, la allontanano dalla dolce illusione in cui si cullava - l’idea di “non esistere” - e le ricordano gli obblighi, i doveri, i legami che la attendono al di fuori delle pareti della clinica. Da subito ai fiori vengono attribuite caratteristiche umane, come in un’evidente personificazione, sono definiti “troppo eccitabili”.
I tulipani diventano quindi metafora del mondo esterno che riflette spietato l’alienazione della poetessa. Sylvia ne è turbata, ne è ferita, percepisce i fiori come una presenza viva venuta a insidiarla, a toglierle l’ossigeno.
I tulipani sono troppo rossi, mi fanno male.
Anche sotto la carta li sentivo respirare
Lei che in quella stanza si stava placidamente scordando di essere sé stessa, ecco che ora viene proiettata di nuovo al centro del suo corpo dalla visione accesa di quei fiori. I tulipani sembrano fare rumore, un gran chiasso, rompono la quiete che aleggiava nella stanza dove Plath “stava imparando la pace”, scivolando inerte nella coscienza di “essere nessuno”.
La poesia è costruita con il consueto stile confessionale che contraddistingue i componimenti della poetessa americana: è come un lungo flusso di coscienza originato da episodi di vita vissuta, ogni verso è come una frase di diario, una riga tracciata da una voce che non cessa di ripetere l’antica vanteria del cuore “io sono, io sono, io sono”.
Come scrive la scrittrice Joyce Carol Oates nel suo saggio sulla Plath: è una donna “che trascina la sua ombra in un circolo” e poi la analizza con accecante scrupolosità.
Assistiamo proprio a questa spietata analisi in Tulipani: Sylvia sembra afferrare la sua anima e vivisezionarla sotto la luce fredda e implacabile di un tavolo operatorio.
L’intero componimento è intessuto di un lessico metaforico, di metafore, similitudini, personificazioni: l’io lirico immagina di essere sott’acqua, come un ciottolo sul letto di un fiume, e il linguaggio marino permea ogni cosa, le cuffie bianche delle infermiere sono come “gabbiani” e lei stessa sembra nuotare lontana come un pesce finché non la afferra all’amo il ricordo dei suoi doveri familiari - il sorriso dei figli e del marito nel portafoto posato sul comodino. Il mare con il suo moto lento e ondivago diventa metafora del torpore in cui il corpo scivola, come una barca, in seguito all’anestesia.
Nel finale l’immagine del mare torna trasposta in una sinestesia: è salata l’acqua che lei sorseggia dal bicchiere e di nuovo ci viene consegnata quest’immagine marina come se la poetessa stesse veleggiando lontano, forse su un’isola, e guardasse un paese irraggiungibile che è la terra dei sani, dei non malati, di chi vive sereno e contento.
La salute, infine, viene raffigurata come un approdo irraggiungibile; e chi legge sa che Sylvia Plath non sta parlando della salute del corpo, poiché è stata ricoverata solo per un semplice intervento di routine, ma della salute della mente che, presa nella morsa della depressione, non riesce ad uscire dalla sua notte.
Già in questa poesia Plath corteggia la morte come una meta ambita, sembra avvertirne il richiamo consolatorio. La ritrae come una “grande pace” che la richiama a sé, la avvolge, la abbaglia; ma mentre si culla compiaciuta in questo miraggio di “non esistenza” sono i tulipani a strapparla dalla sua illusione. Li raffigura con immagini feroci: sono “un bebè mostruoso”, sono “un grande felino africano”, i fiori con il loro colore vermiglio la tolgono dalla dimensione del “non essere” e la scaraventano con forza, con violenza, nella sfera dell’essere. Torna ad avere coscienza di “essere Sylvia” e non un pupazzo inerte in un letto.
Il rosso scarlatto dei fiori diventa infine una metafora del cuore che si apre e si chiude pulsante come un’anemone, il suo ritmo battente le pulsa di nuovo nelle vene. Quella visione disturbante e feroce è la vita; dal letto d’ospedale Sylvia Plath torna ad avere coscienza d’esistere e rinuncia al conforto caldo e ovattato del “non essere”. La vediamo mentre si solleva dritta sul letto e beve un sorso d’acqua che ha il sapore di mare. Da quella prospettiva, sempre subacquea, contempla il mondo dei vivi e dei sani, per lei già definito come una condizione irraggiungibile, lontana come un miraggio.
I tulipani non sono riusciti a salvarla.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “I tulipani”: malattia e alienazione nella poesia di Sylvia Plath
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