
Gabriele D’Annunzio possiede un entusiasmo straordinario che non risiede solamente nel suo istinto primordiale e onnivoro di conoscenza, ma anche e soprattutto nella tendenza all’esaltazione immaginifica in tutte le sue opere, riflesso questo delle esperienze più varie che vengono poi sublimate attraverso il piacere della lettura.
D’Annunzio e il potere eclettico della parola
La scrittura di D’Annunzio pone l’accento sul potere eclettico della parola, ovvero sulla tendenza a elaborare e a mettere insieme le fonti più disparate fondendo mirabilmente, in poesia, schemi metrici e uso appropriato di vocaboli oppure espandendo, in prosa, il campo semantico nell’idealizzazione di ambienti e personaggi, il tutto con uno sguardo che prelude sempre all’avvenire.
In altre parole si tratta di un linguaggio che lascia il lettore stupefatto, in cui natura e società si compenetrano attraverso immagini pagane sostenute da un registro aulico: il mito del superuomo è reso in funzione del godimento dell’attimo fuggente legato al fluire incessante delle sensazioni che permeano gli scritti dell’autore di fatalità e presuppongono un continuo scambio di "vissuto interiore" tra mondo naturale e mondo umano arrivando spesso al cambiamento umorale dei personaggi delle sue opere, reso con accurato stile arcadico e con accenti sia stilnovisti che decadenti.
È come se per D’Annunzio il tempo non trascorresse mai, poiché soggiogato da uno sfrenato edonismo che pone sia lo scrittore che il lettore al centro di una vasta gamma di sensazioni, che rendono entrambi consapevoli della futilità delle cose terrene ma, allo stesso tempo, fanno sì che essi non vogliono mai svegliarsi da questo sogno di piacere, visto che dopo li attende solamente la morte.
Sperimentazione linguistica e poesia prosastica in D’Annunzio
Le opere di D’Annunzio rappresentano, perciò, una parabola ascendente che recupera il classicismo del passato, vagliando però continuamente la sperimentazione linguistica in cui la fine della resa espressiva, riflesso della malattia mortale dell’eroe decadente, è sempre dietro l’angolo.
Nella scrittura dannunziana ogni momento di riflessione rende il lettore immerso in una dimensione sfumata, avvolta cioè da un alone mistico che rende "eroico", anche l’avvento della civiltà delle macchine. Si può parlare quindi di una poesia prosastica, soprattutto quando essa si avvale dell’uso del simbolismo in cui l’"istinto poetico", ovvero il livello inconscio del poetare di pascoliana ascendenza, cede il passo alla realtà dei fatti per poi ripiegare nuovamente, tra esaltazione dell’io e retorica celebrativa, nell’ennesimo tentativo di percezione dell’attimo fuggente.
“Il piacere”: solipsismo dell’io e linguaggio aulico


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Ne Il piacere, il protagonista Andrea Sperelli, alter ego di D’Annunzio, vuole essere un individuo eccezionale, facendo della propria vita un’opera d’arte in cui velleità edonistiche e atteggiamento aristocratico si fondono sempre più nel corso del romanzo, arrivando così a connotare il tempo in una forma fortemente espressionistica tale che la passione è, allo tempo, diletto ed artificio.
Perciò Andrea si compiace di se stesso sempre di più ma, alla fine del romanzo, è costretto ad ammettere che le proprie passioni rappresentano un ostacolo che gli impedisce di uscire dal cerchio solipsistico dell’io; in tal senso D’Annunzio non arriva a risparmiare nemmeno la lingua, impreziosita sì da termini aulici, ma tale da gravare in modo ossessivo sulla capacità recettiva del lettore:
Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, ebbe un po’ di vertigine. Con un passo mal sicuro, si mise in cerca d’una carrozza. La trovò su la piazza del Quirinale; si fece condurre al palazzo Zuccari. Ma, verso sera, una invincibile smania l’invase, di rivedere le stanze disabitate. Salì, di nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chiedere se gli avevano i facchini portato i mobili al palazzo. Un uomo rispose: ― Li portano proprio in questo momento. Ella dovrebbe averli incontrati, signor conte. Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancora qualche tappezzeria dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne’ raggi. Un di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle pipe si levava sino al soffitto. Andrea fuggì. Nella piazza del Quirinale, d’innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe onde di quella musica metallica si propagavano per l’incendio dell’aria. L’obelisco, la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano come penetrati d’una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia di nuvoli, pareva illuminare il cielo. Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari. I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l’armario su per la scala, faticosamente. Egli entrò. Come l’armario occupava tutta la larghezza, egli non potè passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.
(capitolo XVI)
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D’Annunzio, Nietzsche e la società di massa
Il rapporto io-realtà è per D’Annunzio garanzia di conservazione della propria identità, in un crescendo di emozioni che lo pongono al di sopra del grigio diluvio democratico visto che, nel recupero del pensiero di Nietzsche, D’Annunzio riprende l’atteggiamento dell’intellettuale tedesco, volto a denunciare i pregiudizi insiti nello storicismo contemporaneo, non curandosi però di andare contro la tradizione classica, ma in modo da guardare all’effimero e al malsano; come a dire che D’Annunzio vuole trarre godimento estetico anche dalle cose più futili, arrivando così a dare un significato simbolico alla realtà della società di massa che non lascia scampo alla dignità dell’autore.
Ed ecco che allora, per D’Annunzio, l’unico modo per sentirsi degno della propria poesia è ergersi al di sopra della massa popolare, affinché questa si senta debitrice nei confronti dell’opera dannunziana viste l’alienazione e l’indifferenza che la caratterizzano a la differenza della società del Romanticismo.
D’Annunzio e il superamento delle contraddizioni nella società di massa
I mass-media, veicolando un’informazione a misura del contesto storico attuale, ovvero presentando le opere di D’Annunzio come destinate al godimento estetico del piacere, spingono la massa popolare a fare i conti con la loro mancanza di ideali e di limiti nell’atto di vagliare i problemi attuali attraverso la propria introspezione e a cedere quindi al bisogno di comprare e possedere le opere dannunziane.


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La ricerca di conoscenza sconfina, ancora una volta, nella valorizzazione del rapporto io-realtà dello scrittore, che, attraverso l’analisi introspettiva per meglio comprendere il suo ruolo di poeta-vate nella società, attua l’unione tra vecchie e nuove sensazioni, tra passato e presente, recuperando così al massimo il godimento estetico e facendolo coincidere con un bisogno assoluto di immersione nella natura.
In tal senso D’Annunzio arriva al superamento delle contraddizioni insiste nella società di massa, dedita solamente al culto del denaro, e ricostruisce il mito dell’originario rapporto uomo-natura dove godimento estetico e sete assoluta di conoscenza sono intimamente legate. Come si legge nel celebre componimento La pioggia nel pineto:
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome Ermione.
(versi 52-63)
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sperimentazione linguistica e poetica delle sensazioni nelle opere di Gabriele D’Annunzio
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