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Idillio maremmano di Giosuè Carducci è una delle poesie più significative delle Rime Nuove (1861-1887), espressione di quella “deserta malinconia” che si fa sintesi estetica dello stile carducciano, forgiato su un’inquietudine vaga e selvaggia. La lirica completa il ciclo delle poesie dedicate alla terra natia, insieme a Traversando la Maremma toscana e Davanti San Guido in cui l’autore raggiunge i vertici più struggenti della propria malinconia.
Anche in questi versi il paesaggio natale appare trasfigurato dal ricordo: a innescare la rimembranza è un aprile luminoso che traghetta il poeta in una memoria felice. Il raggio splendente del sole riporta ai suoi occhi l’immagine di una “Maria bionda”, giovane donna che sembra incarnarsi nel sole (il colore dei capelli, “biondo”, è una metonimia), farsi luce evanescente e misericordiosa.
Possiamo cogliere in questi versi un’eco del “rimembri ancora” leopardiano: l’intera poesia si muove in bilico tra passato e presente, la giovane donna amata dal poeta non esiste più, appare tutta trasfigurata nell’immaginazione e nel ricordo. “Dove sei?” domanda il Carducci trafitto dal tumulto del primo amore: è una domanda retorica, non prevede una risposta, è tutta tesa a esprimere l’inafferrabilità del ricordo. La Maria bionda di Carducci era in realtà Maria Bianchini, figlia del mugnaio di Bolgheri, il suo primo amor dagli occhi fiordaliso.
La poesia fu composta nell’estate viva dell’uva, nel settembre del 1872, prima che l’ultimo raggio di sole estivo cedesse il passo all’avanzare dell’autunno.
Vediamo testo, parafrasi e analisi di Idillio maremmano.
“Idillio maremmano” di Giosuè Carducci: testo e parafrasi
Co ’l raggio de l’april nuovo che inonda
Roseo la stanza tu sorridi ancora
Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;
E il cuor che t’obliò, dopo tant’ora
Di tumulti oziosi in te riposa,
O amor mio primo, o d’amor dolce aurora.
Ove sei? senza nozze e sospirosa
Non passasti già tu: certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;
Ché il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel promettean troppa
Gioia d’amplessi al marital desio.
Forti figli pendean da la tua poppa
Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
Al mal domo caval saltano in groppa.
Il raggio roseo dell’aprile luminoso che entra nella stanza mi riporta il tuo ricordo, Maria dai capelli d’oro, e il tuo sorriso colma improvvisamente il mio cuore che a lungo ti aveva dimenticato. Ora quello stesso cuore, a lungo scosso da angosce e noie, in te trova riposo. Oh tu, mio primo amore, mia dolce aurora, dove sei? Son certa che non trascorresti la giovinezza triste e senza nozze, certo ora il paese natio ti accoglie serena madre e sposa. Il tuo fianco audace, il seno che non poteva essere contenuto nei pudici abiti, promettevano un’incontenibile gioia di amplessi al desiderio di uno sposo.
Dei figli forti sono certamente stati allattati al tuo seno e ora coraggiosi, cercando l’approvazione del tuo sguardo, saltano in groppa a un cavallo non domato.
Com’eri bella, o giovinetta, quando
Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi
Un tuo serto di fiori in man recando,
Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
Di selvatico fuoco lampeggiante
Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!
Come ’l ciano seren tra ’l biondeggiante
Òr de le spiche, tra la chioma flava
Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante
La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra’ verdi rami il sol ridea
Del melogran, che rosso scintillava.
Al tuo passar, siccome a la sua dea,
Il bel pavon l’occhiuta coda apria
Guardando, e un rauco grido a te mettea.
Com’eri bella da giovane, quando nell’ondeggiare del tuo abito uscivi portando con te una ghirlanda di fiori da te composta. Alta e sorridente, sotto le tue ciglia vivaci, spalancavi l’azzurro dei tuoi occhi lampeggianti di un fuoco selvaggio.
Come il blu sereno del cielo tra l’oro biondeggiante delle spighe dei campi i tuoi occhi azzurri splendevano; dinnanzi a te esplodeva la grande estate, mentre sparso tra i rami verdi il sole rideva del melograno che inutilmente scintillava.
Mentre tu passavi il pavone faceva la ruota dinnanzi alla sua dea e, guardandoti, emetteva un grido rauco.
Oh come fredda indi la vita mia,
Come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!
Meglio ir tracciando per la sconsolata
Boscaglia al piano il bufolo disperso,
Che salta fra la macchia e sosta e guata,
Che sudar dietro al piccioletto verso!
Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
Questo enorme mister de l’universo!
Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo
Mi trafora il cervello, ond’io dolente
Misere cose scrivo e tristi parlo.
Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
Corrose l’ossa dal malor civile,
Mi divincolo in van rabbiosamente.
Oh, come è fredda ora la mia vita, è trascorsa in un lampo sgradevole e oscura. Era meglio se sposavo te, Maria bionda. Era meglio andare dalla desolata boscaglia alla pianura trascinando il bue disperso, che ogni tanto si ferma o salta tra la macchia, che sudare così a lungo dietro le parole (“piccioletto verso” per intendere le poesie, cui in questo frangente l’autore attribuisce scarso valore). Era meglio dimenticare, senza indagarlo a lungo questo immenso mistero dell’universo.
Ora il freddo prolungato mi scava il cervello mentre io, dolente, scrivo cose misere e parlo tristemente.
I miei muscoli e il mio cuore sono stati guastati dalla colpevole mente, le ossa corrose dal malessere civile, invano mi divincolo da queste sensazioni con furia.
Oh lunghe al vento sussurranti file
De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ’l sacrato
Ne i dí solenni rustico sedile,
Onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele, e il campo santo è a lato!
Oh dolce tra gli eguali il novellare
Su ’l quieto meriggio, e a le rigenti
Sere accogliersi intorno al focolare!
Oh, lunghe file dei pioppi che sussurrano al vento, belle ombre che si allungano sul sagrato; il rustico sedile sul quale, nei giorni solenni di festa, si ammira la pianura arata e più in là i verdi colli e poi il mare punteggiato dalle vele delle barche, mentre il cimitero sta proprio accanto.
Oh, era dolce il raccontarsi tra le comuni genti nel quieto pomeriggio, poi la sera raccogliersi a finire il racconto attorno al focolare.
Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
Narrar le forti prove e le sudate
Cacce ed i perigliosi avvolgimenti
Ed a dito segnar le profondate
Oblique piaghe nel cignal supino,
Che proseguir con frottole rimate
I vigliacchi d’Italia e Trissottino.
O forse era miglior gloria raccontare, ai figlioletti intenti nell’ascolto, le forti imprese, le cacce temerarie, le pericolose avventure di una vita e indicare con il dito le ferite, anziché proseguire a scrivere rime bugiarde sui vigliacchi d’Italia il Trisottino (personaggio satirico della commedia che indica i letterati di consorteria).
“Idillio maremmano” di Giosuè Carducci: analisi e commento
Dobbiamo leggere questa lirica di Carducci come una sorta di autoanalisi: nel 1872 a scrivere era un uomo alla vigilia dei quarant’anni, ne aveva trentasette l’autore all’epoca e si trovava a fare i conti con la propria vita, le scelte compiute o incompiute, le strade battute e non.
Nell’Ottocento possiamo infatti già considerare i quarant’anni come un’età avanzata, in cui un uomo poteva considerarsi ormai alla soglia dell’età senile.
L’analisi introspettiva di Carducci è innescata da un ricordo, espresso nella lirica attraverso la figura retorica della metonimia: la luce splendente del sole d’aprile gli riporta all’improvviso alla memoria i capelli d’oro della bionda Maria, ovvero Maria Bianchini, la figlia del mugnaio, il suo primo amore di gioventù.
A partire da tale momento il poeta analizza in parallelo la sua vita e quella di Maria, ormai irreparabilmente divise: il “rimembri ancora” carducciano, da questo punto di vista, si discosta dall’idillio leopardiano dedicato A Silvia. Leopardi ricordava la vita mortale di una morta, il parallelismo era tra la giovinezza perduta di Silvia, il suo spensierato “limitar di gioventù” tradito dalla morte, e la giovinezza dell’autore ormai offuscata alle soglie dell’età adulta; mentre in Carducci la giovinezza rappresenta la traiettoria comune - il ricordo inscalfibile e tenace - e l’età adulta è dove le strade, la sua e di Maria, si dividono per sempre.
Nel ricordo iniziale Maria si fa carne e sangue, la sua persona è ritratta attraverso il desiderio che il poeta nutriva per lei e ora associa, quasi per assolversi impunemente, al “marital desio”: la immagina sposata, con figli che le si attaccano al seno, una specie di Madonna laica.
La donna perduta poi viene evocata come una Dea, la sua figura giovane si confonde con il paesaggio in una sorta di panismo: gli elementi naturali e gli animali sembrano invidiare la sua bellezza viva. Il pavone, simbolo della vanità, si inchina al suo passaggio. Lei è il centro da cui sgorga la luce, un punto luminoso e luminescente.
Il ritratto del paesaggio maremmano sbiadisce nei capelli d’oro e negli occhi azzurri di Maria: c’è lei al centro del quadro poetico composto da Carducci, nient’altro.
Il sole stesso diventa metafora di Maria, avvolta da un’aura di luce chiara come i suoi capelli, e Idillio maremmano è una poesia luminosa, estrema sintesi dell’estate.
La presenza-assenza di Maria si avvera nel vago e nell’indefinito. L’immaginazione la tramuta in regina: il poeta contrappone la vita della donna, che immagina ricca e piena, con la miseria della propria esistenza dedita a un intellettualismo forzato e malsano.
Il pathos della lirica raggiunge il punto di acme quando il poeta prorompe nel grido:
“Meglio era sposar te, bionda Maria!”
Verso che avvera il rimpianto, rende ciò che fino a poco prima era rimasto taciuto, perlomeno non detto, d’improvviso evidente. Carducci nei versi successivi traccia la possibilità di una vita diversa: l’intera poesia si articola sulla contrapposizione, una sorta di sliding doors mentale, come sarebbero andate le cose se...
Giosuè Carducci, solo e pensoso, immagina che avrebbe vissuto una vita più piena se non avesse avuto quel balzano desiderio d’esser poeta: forse sarebbe stato più sereno, accanto a Maria, vivendo una vita contadina nella sua natale maremma toscana. Il rimpianto è radicato nel Carducci poeta; ma, del resto, è propria questa “deserta malinconia”, inscindibile dalla sua persona, a fare di lui un poeta.
Nella strofa conclusiva dell’Idillio maremmano l’autore sembra mettere in discussione il valore stesso della sua poesia, quando, nella nota conclusiva, cita Trisottino, personaggio della commedia Les femmes savantes (1672) di Molière, divenuto il tipo satirico del letterato che vive solo grazie a un certo amichettismo e al prestigio della propria fazione intellettuale che all’autentico talento.
Va da sé che l’ Idillio maremmano di Giosuè Carducci è una poesia di prospettive, in cui l’immaginazione trasfigura il ricordo e alimenta il sogno di possibilità attraverso il fantasma di Maria che, infine, sbiadisce nel buio di una stanza nella quale il poeta si trova a contemplare le proprie “sudate carte”. Carducci appare come un uomo rassegnato, stanco della vanità delle lotte letterarie e politiche: l’ipocrisia della sua vita attuale pare piegarsi e dissolversi dinnanzi al ricordo di una giovinezza abbagliante che prometteva milioni di possibilità.
Si tratta di una lirica nutrita di rimpianto, in cui il paesaggio evocato da Carducci non è il paesaggio naturale ma la possibilità smarrita della sua gioventù.
Ora che è un uomo fatto, la sua strada l’ha imboccata e i ripensamenti sono inutili: in fondo possiamo cogliere un tono, in un certo senso compiaciuto, in Carducci quando allude alle sue frottole letterarie.
Se non fosse stato un poeta (o un “Trisottino da strapazzo”, come si definisce con arguta metafora letteraria) neppure questo luminoso idillio, che pur trasudando nostalgia ci trasporta nel fulgore di un’estate, si sarebbe compiuto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Idillio maremmano” di Giosuè Carducci: un ricordo di gioventù in poesia
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