Il dolore di Marguerite Duras

Un’esperienza sconvolgente può, senza ombra di dubbio, riuscire nell’impresa di fondere assieme la letteratura alla vita vissuta, ne è un esempio incontestabile “Il dolore” di Marguerite Duras (Feltrinelli, 2006).

Un’opera che racchiude al suo interno quattro romanzi brevi autobiografici e due racconti d’invenzione, scritti con sangue e sudore, fame, in uno stile crudo ed essenziale, immediato come una brutta notizia. Duras ci accompagna lungo il sentiero del suo inferno personale, ovvero l’attesa del ritorno del marito dal campo di concentramento di Dachau durante il periodo in cui militava nella Resistenza a Parigi, in suo effettivo ritorno a casa in condizioni più che pessime, al limite fra la vita e la morte, e la sua miracolosa ripresa. La descrizione terribile e certosina dell’attesa di una telefonata, anche nel cuore della notte, che potesse ridarle la speranza, gli interrogatori feroci agli altri sopravvissuti in cerca spasmodica di notizie su suo marito, la frustrazione e il dolore che portano al deterioramento fisico e spirituale in una donna forte, ma soggetta come chiunque ai duri affondi della vita. Una testimonianza cruciale sul caos successivo alla resa della Germania, sul ritorno a casa di centinaia di superstiti che fino all’ultimo hanno assistito alle più turpi atrocità umane, un libro per stomaci forti e menti allenate agli effetti del dolore.

“Nella testa della signora Bordes, nella mia, nient’altro accade, solo rovesciamenti senza oggetto, non sappiamo cosa venga lacerato, idem schiacciato, e poi varchi che si aprono verso sfoghi lontani, varchi che si chiudono, che rimpiccioliscono fino a sparire, sofferenza dappertutto, sangue che scorre, grida, per questo il pensiero non riesce a farsi, non partecipa al caos ma è continuamente soppiantato dal caos, è senza mezzi di fronte a lui”.