La casa editrice La Noce d’Oro porta per la prima volta in Italia i Diari di Alejandra Pizarnik, la più celebre scrittrice e poetessa argentina, morta suicida nel 1972, che è stata recentemente oggetto di una riscoperta letteraria tardiva.
Il primo volume dei diari di Pizarnik si intitola Il ponte sognato (La Noce d’Oro, 2022, traduzione di Roberta Truscia) e ripercorre un arco di tempo relativamente breve, ma determinante per lo sviluppo artistico della futura poetessa: dal 1954 al 1960. Alejandra inizia a scrivere queste pagine a 18 anni e termina a 24, confessando tuttavia che la sua ricerca di sé non è ancora conclusa.
E ora devo iniziare di nuovo. Come se non fossi ancora nata.
Lei, Alejandra, creatura della notte, figlia dell’insonnia, scrive parole incandescenti e acuminate come lame di coltelli. I suoi diari rappresentano un viaggio metafisico nei labirinti della mente e anche la creazione di un libro “totale”, che in verità non scriverà mai. Pizarnik non racconta storie di vita vera né vicende che seguano un’evoluzione precisa: le pagine del suo diario sono frammenti, allucinazioni, lampi di coscienza, abissi di inquietudine, viaggi iperbolici nella paranoia e poesia brillante, limpidissima, pura. Lei che non sa se preferire la “realtà” o “l’irrealtà”, e vorrebbe solo prendere l’attimo, afferrarlo, toccarlo dirgli “Sei mio!”. Ci riesce scrivendo, è il suo potere; o forse il suo sortilegio.
La giovane Alejandra legge Proust, ama Rilke, litiga con la madre, vive amori platonici profondissimi e deliranti, sogna di diventare scrittrice e, difatti, scrive incessantemente: pagina dopo pagina immagina di comporre l’ambito “libro”, perfeziona la sua penna a quello scopo cercando il termine esatto, la descrizione perfetta, sondando la profondità delle sue emozioni.
Il libro di Alejandra ora è qui, è questo, Il ponte sognato, ce lo abbiamo tra le mani a testimoniare la grandezza di un’anima che si è trasfusa completamente nella scrittura sino ad annullarsi nella sequenza imperfetta, traballante - ma ostinata - delle parole. Si tratta di un diario lirico, in cui ogni frammento di vita o zampillo di coscienza si trasfonde in una poesia che illumina di senso l’esistenza, con il riverbero specchiante di una luce riflessa sull’acqua. I pensieri di Pizarnik sono violenti e vorticosi come una tempesta emotiva che non trova mai requie, che mai si placa.
Ma puoi anche scrivere poesie, non perché tu creda che con loro ti salverai, ma per salvare loro, le prigioniere dell’aria, della tua aria. O anche solo perché non dicano che hai viaggiato gratis attraverso la vita.
Il suo contributo, mademoiselle Alejandra?
Una poesia, monsieur, una poesia bella come il sorriso di quel sole che non brilla per me. E questo è tutto.
Alejandra Pizarnik ci lascia 10 quadernetti e ben 14 quaderni manoscritti. In ciascuno di essi si propone di “trovare una parola che sia vera”; sarà impegnata in questa ricerca sino all’ultimo giorno della sua breve esistenza. Ma cosa definisce la brevità di una vita? Non l’età anagrafica riportata sul certificato di morte, di certo. C’è una tale intensità nelle parole scritte che pare che Pizarnik abbia vissuto più intensamente dell’uomo più vecchio e saggio del pianeta. Le pagine di questi Diari non racchiudono la “storia di una vita”, ma un concentrato di dolore, desiderio, angoscia, nostalgia che sono anche gli estremi della creazione artistica: una grande gioia e una terribile malessere. Sono il preludio di un’opera che Alejandra non scriverà mai. Ma quell’opera fatta di “atroce materia verbale errante” in realtà esiste, è scritta con il linguaggio tempestoso e surreale dei sentimenti - e ora possiamo leggerla.
I diari di Alejandra Pizarnik
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Questo primo volume dei Diari di Pizarnik, pubblicato da La Noce d’Oro, è un’edizione raffinata: un piccolo libro dal formato squadrato, con una bella copertina in carta goffrata dove appare in rilievo la scrittura originale, manoscritta, di Alejandra. Una sfilza di piccole lettere ordinate scritte con l’inchiostro blu che risultano in forte contrasto con il candido biancore della pagina. Soprattutto, colpisce il confliggere netto tra questa scrittura pulita, chiara, raffinata da brava scolara e il completo disordine della mente, la lacerazione dell’anima, l’inferno dell’inconscio.
Stupore. Stupore di essere me. Stupore di essere una ragazza nella notte gravida di presagi. Stupore di fronte al mio stupore.
Chiudete gli occhi del viso e aprite gli occhi del cuore.
Litigava con sé stessa e con la sua scrittura, era molto dura nelle sue autoanalisi: tanto da giudicare le sue poesie dei tiepidi “balbettii” o, peggio, degli “aborti”. Pizarnik scrive parole che fanno male, che feriscono gli occhi e tuttavia abbagliano con lo splendore feroce di una luce inattesa. Uno dei termini più ricorrenti in queste memorie è “dolore”:
Dolore. Dolore di essere, dolore di amare e di non essere amata. Dolore della notte che mi accarezza i capelli. Dolore del mare. Dolore per la vita che passa senza fermarsi alla mia porta. Dolore di parlare e che le mie parole rimangano attaccate al vento che le disperderà in paesaggi immemori.
Viene da chiedersi se queste pagine non siano un grido d’aiuto che ora giunge sino a noi, inascoltato. Parla spesso del suo “sradicamento”, della sua incapacità di trovarsi a proprio agio nel mondo. Alejandra Pizarnik cerca ostinatamente sé stessa attraverso la scrittura: usando la penna si demolisce e si ricostruisce di continuo.
“Dolore” è una delle parole più ricorrenti, l’altra è “notte”: come se l’oscurità fosse la cura, il riposo, oppure a tratti un demone da sconfiggere attraverso “l’ululato” delle parole.
La notte insiste per essere silenzio. Io colpisco le porte della notte.
La breve eternità di Alejandra Pizarnik
Sentii nominare per la prima volta Alejandra Pizarnik durante un soggiorno a Madrid, e non l’avrei mai più dimenticata. Una sera mi recitarono i versi di una sua poesia in spagnolo: suonavano calmi come una ninna nanna, esotici come un profumo di spezie e, al contempo, struggenti, poiché quelle parole sembravano sgorgare dal buio più fondo di un abisso insondabile. Quella poesia era La noche, La notte, una delle opere più famose della poetessa argentina.
Poco sé de la noche
pero la noche parece saber de mí
Ne rimasi stregata. Subito chiesi più informazioni su di lei, mentre cercavo di tradurre la poesia per scoprire come suonasse in italiano, se risultasse melodiosa anche nella mia lingua, se conservasse la medesima segreta armonia. Fu così che scoprii che Alejandra era morta, suicida, a soli 36 anni. Questo fatto, non so perché, me la rese ancora più cara: capii che quella malinconia lacerante che avevo percepito sottotono, che sgorgava come un fiume carsico nelle pause dei versi, nel ritmo teso delle parole, era autentica.
La poesia all’improvviso acquisiva un altro peso, un altro significato: era un canto dell’anima. Non avevo dubbi che fosse la sua voce a parlarci da una profondità impenetrabile, tuttavia inesplicabilmente vicina, condivisa, come un sussurro nel buio; alllora la notte appariva come un manto oscuro capace di avvolgerci le spalle, tenendole al riparo dagli incubi. Si creava così un ponte di parole che sembrava attraversare i secoli, giungere intatto sino a noi con il ritmo di una melodia andalusa cadenzata e carnale, senza strumenti o ballerini che ne scandiscano il tempo, perché quel lampo di eternità è attraversato solo dalla voce di Alejandra Pizarnik:
Tal vez las palabras sean lo único que existe
en el enorme vacío de los siglos
que nos arañan el alma con sus recuerdos.
Sono le parole l’unica cosa che esiste “nell’enorme vuoto dei secoli”: sono versi che ti attraversano e ti scarnificano come se giungessero dal mondo degli spiriti, da un universo capovolto, da una notte perpetua che ha dimenticato lo splendore giorno.
Ora ritrovo la voce di Alejandra nei suoi diari e d’improvviso la riconosco, poiché sembra parlare dalla stessa oscurità mantenendo sempre quella peculiare tonalità sonora, in bilico tra reale e irreale, come una trama di sogno. Nelle sue memorie Pizarnik scrive solo in parte di sé stessa perché in realtà si sta ancora cercando, così come cerca la sua poesia nella forma, nel ritmo di componimenti e testi altrui.
Commoventi e sublimi le riflessioni che dedica al poeta che ama più di tutti, Rainer Maria Rilke:
Il fatto è che Rilke mi prende per mano e mi parla dolcemente, profondamente, e la sua voce ricorda qualcosa che non fu mai, la sua voce rievoca qualcosa che ho vissuto senza averlo davvero vissuto, come se si trattasse di un avvenimento che mi accadde in un’altra vita, molto antica, immemore, ma più reale di questa, come se fosse degenerata in questa.
Attraverso le parole, il “suo ponte sognato”, Alejandra Pizarnik sembra tentare di accedere a un’altra dimensione.
La morte ritorna spesso tra le righe, come un presagio. “Io morirò sotto il sole”, annuncia a un certo punto. Non può certo morire di notte Alejandra, lei che è una creatura del buio, una figlia dell’insonnia, nata dalle complessità invisibile delle tenebre.
La poetessa argentina morì a Buenos Aires il 25 settembre 1972. Lo ricorda nella postfazione dei Diari l’amica Ana Becciu, a sua volta poetessa e traduttrice. Alla notizia della morte fa seguito un ricordo che sembra eternare Alejandra nel presente:
Era una ragazza dai grandi occhi verdi. Con un’aria da adolescente indifesa e un’intelligenza fuori dal comune.
Becciu riassume l’anima errante di Pizarnik nella sua fuga: nel 1960, a ventiquattro anni, lasciò la sua famiglia per trasferirsi a Parigi. Nella grande Ville Lumière era una ragazza sola, povera e sradicata che scriveva di notte, chiusa nella sua stanza “scrivendo la vita senza descriverla”. Illuminata dal tiepido bagliore di una lampada Alejandra Pizarnik aggiungeva riga dopo riga, cancellava e riscriveva incessantemente, come inghiottita da quella notte che sembrava avvolgerla “come se la amasse”.
In una delle ultime pagine del primo volume dei Diari, compone uno straziante ritratto di sé stessa in terza persona (si dà del “Lei”, come in una sorta di sdoppiamento psichico), in cui ancora una volta la morte aleggia come un inquietante presagio:
Lei non teme la morte. Sa che “l’altra” non morirà. C’è di più: morire significherebbe forse - e questa è la sua speranza - incorporarsi a sé stessa, abbracciarsi senza paura, aprire gli occhi e guardarsi. Guardarsi per la prima volta. Per questo vuole morire. La sua vita le sembra così indegna di sé. (...)
Nonostante ciò, è generosa, si regala poesie, immagini, idee. (...) Lei non ha risparmi: vive di quello che si dà.
Quel suo vulcanico e tumultuoso mondo interiore - poesie, immagini, idee - ora Alejandra l’ha donato a noi, forse perché potessimo afferrare il senso che lei non era riuscita a trovare, come il bandolo di una matassa troppo intricata. Il diario per lei rappresentava “il punto di riferimento” (come confessò all’amica Cristina Campo), era ciò che la ancorava alla vita; ma non solo, lo concepiva anche come l’estensione di un’opera lettereria in divenire.
Voleva che i suoi diari fossero pubblicati come il “diario di una scrittrice”: li ordinò, li catalogò, poi li lasciò nelle mani altrui, perché il suo tempo era finito e voleva incontrare sé stessa nell’altra dimensione. Negli anni Settanta era diventata una “poeta” di culto in America Latina, molto ammirata nella società letteraria di Buenos Aires; ma in fondo al cuore era rimasta la “ragazza di Parigi” che scriveva incessantemente nella notte rischiarata dalla penombra di un lume alla ricerca di una “parola che sia vera”. Era convinta di non averla mai trovata.
Le sue parole ora riflettono questa ricerca e ci restituiscono Alejandra Pizarnik viva.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il ponte sognato”: i Diari di Alejandra Pizarnik per la prima volta in Italia
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