Lo spunto per queste note mi viene dalla rilettura di “Il Processo” di Kafka, riedito da Il Saggiatore nella nuova e luminosa traduzione di Valentina Tortelli.
Un romanzo di straordinaria chiaroveggenza ontologica: lo statuto alienato dell’individuo in relazione al Potere, estrinsecato sin da un incipit lapidario, che ha fatto storia:
Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perchè una mattina, senza che avesse fatto niente di male, fu arrestato.
Scopriamo più approfonditamente la trama e il significato del libro.
Il processo di Franz Kafka e la colpa di esistere
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L’evoluzione della trama è claustrofobica, snodata in parallelo all’involuzione del “caso” giuridico del protagonista: un dibattersi grottesco tra udienze, avvocati, uffici surreali, ambigui interlocutori, a difesa inane della propria libertà.
Ciò a cui intendo accennare nello specifico, riguarda la derivazione metafisica della “colpa” di cui è accusato Josef K., proiezione psicanaliticamente castrante dei rapporti fra Potere e individuo nelle società organizzate.
Volendo muovere da un’interpretazione che tenga conto proprio dei caratteri “sovrannaturali” (in quanto imperscrutabili) del Potere, la colpa di cui è accusato il protagonista del romanzo, è una colpa ab origine (la colpa di esistere).
La surrogazione - in altre parole - del peccato originale di cui ogni essere umano (non solo Josef K.) è accusato da Dio, di cui i tribunali sono derivazione.
Secondo tale accezione, e pur se nei suoi patetici tentativi di autodifesa, Josef K. incarna quindi la condizione attonita, smarrita, dell’umanità alla ricerca di senso. Ne rappresenta il disorientamento rispetto a un mistero (la Legge, e al contempo un piano simil-divino) perpetuato da un Tribunale vigilante, accusante, afflittivo degli uomini, a suo insindacabile giudizio passibili di "arresto" e "condanna".
Da questo stesso piano interpretativo è possibile accedere alla dimensione sociale – e simbolicamente denunciante - del Processo: attraverso le surreali declinazioni del Tribunale accusatore, Kafka tratteggia infatti il Moloch sovrumano che burocratizza l’esser-ci per il peccato del genere umano, un Tribunale che accusa, punisce, e non spiega; somministrando le pene sulla base di leggi promulgate a sua misura, amministrate secondo il proprio arbitrio esclusivo.
Come ulteriore rimando simbolico, anche gli uffici di questo Tribunale Assoluto sono descritti sconnessi, angusti, occultati nei quartieri popolari della città, in (non)luoghi fatiscenti (soffitte, stanze maleodoranti, prive di spiragli), labirinto architettonico di una Giustizia-appendice dell’occhio onnisciente di un Dio (biblico) che riprova l’essere umano sulla base di una “colpevolezza per la colpevolezza”.
Come indicato dal filosofo Michel Foucault:
Quanto al potere disciplinare, esso si esercita rendendosi invisibile; invece impone a coloro a cui sottopone un principio di visibilità obbligatoria.
In ultima analisi: il senso di assurda vertigine che coglie Josef K. in parallelo al proprio misurarsi con l’inconoscibilità della Legge, perturba i lettori più vigili, in quanto Josef K. siamo noi, soggetti giocoforza al potere detenuto da istituzioni esterne, che determinano – dalla culla alla tomba - i recinti angusti della nostra libertà.
Contemporaneamente a Il processo, la casa editrice Il Saggiatore ha riportato in libreria altri due romanzi di Franz Kafka in nuove traduzioni. Si tratta di Il castello e di Il disperso: per ragioni legate allo statuto profetico di queste opere, vale la pena acquistare – e (ri)leggere - l’intera trilogia.
Recensione del libro
Il processo
di Franz Kafka
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il Processo: perché rileggere il libro di Kafka nella nuova edizione
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