Il 14 aprile 1930 moriva a Mosca, a soli trentasette anni, Vladimir Majakovskij, considerato il grande cantore della Rivoluzione Russa. Una vita breve e fulminante, bruciata come un cerino, la sua. Si sparò un colpo di pistola dritto al cuore, ma la sua morte rimane un giallo su cui si stende il presagio oscuro di un suicidio indotto dal regime. A sostenere quest’ipotesi c’è quell’ultimo biglietto, spesso citato per le affinità con l’ultimo messaggio - scritto vent’anni dopo - di Cesare Pavese: “niente pettegolezzi”.
A tutti. Della mia morte non incolpate nessuno e, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto li detestava. Mamma, sorelle, perdontatemi: non è una soluzione (e non la consiglio ad altri), ma non ho vie d’uscita.
“Non ho vie d’uscita”, scrisse angosciosamente Majakovskij prima di sparare quel colpo fatale. Il suo messaggio si concludeva in maniera commovente: Voi che restate, siate felici.
Fu lui a proclamare l’equazione “futurismo=rivoluzione” che avrebbe infiammato gli spiriti e spinto le parole al loro massimo significante, dove l’azione era il movimento della folla, i versi poetici divenivano comandamenti capaci di tradurre la lotta delle idee. Era l’esempio perfetto di intellettuale militante. Lo ricordiamo attraverso i versi dell’amico Boris Pasternak scritti dopo la sua scomparsa, che portano il titolo In morte di Majakovskij.
Fu Majakowskij, del resto, il primo a intuire la grandezza della poesia di Pasternak, in cui colse lo splendore di una “scrittura nuova”. Non sempre correva buon sangue tra i due, troppo simili, troppo diversi: il primo concreto e impetuoso, il secondo astratto ed enigmatico. Vissero nella stessa epoca fervente, infuocata e combattiva, eppure interpretarono la Rivoluzione in maniera diversa: Pasternak se ne tenne al margine, mentre Majakovskij vi si mise al centro. Non poteva fare diversamente, tutto nella vita del poeta russo era esorbitante, lavico, esplosivo e assordante come un rombo di tuono. L’eco di quello sparo, che pose fine alla sua vita, ritorna nella poesia di Pasternak come “simile a un Etna”, e pare di udirlo tuttora in tutta la sua dirompenza. “Mi suicido!” minacciava Majakowskij, sentendosi già vecchio, spacciato, finito, a trentacinque anni anni. Le delusioni amorose e politiche forse avallarono questo pensiero fatale di cui ritroviamo un presagio anche nella poesia La svendita, contenuta in Flauto di vertebre in cui scrive “morto di fame/o di un colpo di pistola”.
Secondo la definizione di Pasternak, Majakowskij fu “fin dall’infanzia fu la creatura viziata di un futuro che gli si arrese piuttosto presto e apparentemente senza grande sforzo.” Il suo tuttavia non fu un destino di vittoria né di trionfo, e l’amico poeta pare indagarne il senso in questa poesia dal titolo In morte di un poeta, oggi meglio nota come In morte di Majakowskij.
Da poeta a poeta si dipana il filo della memoria. In questi versi, trionfali e commossi al contempo, Boris Pasternak indaga una morte che nessuno può credere, da tutti ritenuta “un’assurdità”. In fondo chi legge lo sa, che Majakovskij non è mai morto davvero.
Scopriamone testo e analisi.
“In morte di Majakovskij” di Boris Paternak: testo
Non ci credevano, la ritenevano un’assurdità,
ma venivano a saperlo da due, da tre, da tutti.
Si mettevano accanto nella fila del tempo
fermatosi di botto.
Case di mogli, di impiegati e di mercanti,
cortili, alberi, e su questi
corvi che nel vapore del sole rovente
eccitati contro le cornacchie levavan grida,
perché le stupide d’ora innanzi
non s’invischiassero nel peccato, alla malora!Solo c’era sui volti un’umida contrazione
come nelle pieghe d’una fantasticheria strappata.
Era un giorno, un innocuo giorno, più innocuo
d’una decina di precedenti giorni tuoi.
Si affollavano, allineandosi nell’anticamera,
come se allineati li avesse il tuo sparo.Tu dormivi, spianato il letto sulla maldicenza,
dormivi e, cessato ogni palpito, eri sereno ‐ bello,
ventiduenne, come aveva predetto il tuo tetrattico.
Tu dormivi, premendo la guancia al cuscino,
dormivi, a piene gambe, a pieni malleoli,
inserendoti di nuovo e di nuovo di colpo nella schiera delle leggende
giovanili.
Tu t’inseristi in esse con più forza
perché d’un solo balzo le avevi raggiunte.
Il tuo sparo fu simile a un Etna
in un pianoro di codardi!
“In morte di Majakovskij” di Boris Paternak: analisi e commento
L’eco dello sparo - con coraggio dritto al cuore - di Majakovskij viene interpretato da Pasternak come un risveglio delle coscienze codarde, sottomesse, della sua epoca. L’aspetto più commovente della lirica - una delle più celebri del poeta russo - è che per tutto il tempo Pasternak sembra parlare come se Majakovskij fosse ancora in vita, non nomina mai, infatti, la parola “morte”, come se la ritenesse indicibile; appare invece, ripetuto, insistente, il riferimento allo “sparo”.
La prima strofa è dedicata allo stupore con cui il popolo russo accoglie la notizia della scomparsa, uno stupore molto simile all’incredulità che sembra ripercuotersi e amplificarsi nello gracchiare cupo delle cornacchie. La folla sgomenta giunge così al terzo piano dell’edificio di via Lubjanskij, dove il corpo di Majakovskij era stato ricomposto per la veglia funebre. L’assurdità della sua morte sembra riverberarsi nel nulla come l’eco attonita dello sparo: possibile che la morte possa accadere in un giorno qualunque, un giorno così innocente, simile a tanti altri giorni di vita.
Infine, nella terza strofa, ecco che Pasternak osserva Majakovskij e pure non ci dice che è morto, gli si rivolge con affetto: “Tu dormivi”, afferma, come se stesse continuando con lui un dialogo ininterrotto. Sembra riposare in un sonno rinvigorente, salutare, un sonno che sazia: “dormivi a piene gambe, a pieni malleoli”.
Nel sonno il volto del poeta sembra ringiovanire, tornare bello, sereno, lontano dalle maldicenze e dalle ingiustizie che gli avevano avvelenato la vita. Aveva ancora ventidue anni, la sua età preferita, non era stato neppure scalfito da quel trentesimo anno in cui già intuiva il declino precoce della vecchiaia. “Vivrò fino a trent’anni, poi basta!” aveva detto sfidante all’amata Lili Brik, sua musa ispiratrice.
Pasternak nel finale di In morte di un poeta allude al paradosso della breve vita di Majakowskij che, in pur così poco tempo, riuscì a entrare nella schiera dei grandi: in un solo grande “balzo” aveva eguagliato le sue leggende giovanili, divenendo leggenda lui stesso. Ora meritava riposo, un sano sonno rinvigorente, dopo aver fatto riecheggiare nel mondo quello sparo rivelatore, la cui eco non si sarebbe spenta.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “In morte di Majakovskij” di Boris Paternak: la poesia dedicata al grande poeta della Rivoluzione
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