Dopo il successo ottenuto con il suo romanzo d’esordio, Eppure cadiamo felici (Garzanti, 2017), a distanza di anni Enrico Galiano ci regala, ancora una volta, il tratteggio pittoresco e indimenticabile dell’amato prof. Bove, un ritorno del tutto inaspettato in Una vita non basta (Garzanti, 2024) e che saprà lasciare nel lettore un piacevole ricordo.
Ora ex professore, la sua vita incrocerà quella del giovane Teo Limiti, studente bocciato in secondo liceo che ha commesso qualcosa di sbagliato... tanto da essere punito con alcune ore, ogni giorno, destinate a lavori socialmente utili.
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Saranno un parco e una panchina, il più delle volte, così come molti altri suggestivi luoghi, a fare da sfondo e da cornice ai dialoghi e alle confidenze che si instaureranno giorno dopo giorno tra questi due indimenticabili protagonisti, al contempo così diversi e simili tra loro, di una storia le cui dinamiche sapranno essere potenti come una calamita: impossibile per il lettore non calarsi nei panni dei vari personaggi, non farsi coinvolgere da risvolti inattesi che lentamente lo condurranno a profonde riflessioni - come il recupero della capacità di osservare nel profondo, di saper cogliere attorno a noi piccoli e mai banali "miracoli" -, senza cadere mai nell’intento di fare retorica... perché per trovare sé stessi bisogna perdersi, ritrovarsi e perdersi ancora.
Lei è un ragazzo che si sta facendo delle domande. E io lo so quanto può essere angosciante, specie alla sua età, non avere delle risposte, eccome se lo so! Ma so anche che quelle domande lì possono essere la sua salvezza! Se le tenga strette, non le abbandoni mai!
L’ho intervistato per voi per conoscere più da vicino il mondo meraviglioso narrato nel suo ultimo romanzo.
- Partiamo dal titolo, Una vita non basta: quale messaggio si cela in esso? E nel leggerlo, quali immediate sensazioni e/o riflessioni può risvegliare nel lettore?
Mi piaceva l’idea di un titolo breve questa volta: un titolo che potesse essere letto in molti modi. Non so quali possa suscitare nel lettore: so che nel mio caso serve a dire che c’è talmente tanto da vivere che una vita non basta.
Ora anche Teo, non sapendo cosa fare, sfiora il cipresso. Infilare la mano dentro quegli aghetti gli regala una sensazione di pace.
- Parliamo di scuola: nel ruolo di professore hai voluto muovere una critica, lanciare un monito - attraverso l’espediente della traccia del tema scritto assegnata a Teo - al mondo scolastico?
Sì, quello è per me proprio un mini pamphlet che ho voluto scrivere contro un certo modo di fare scuola, contro una certa mentalità, ancora fossilizzata su pratiche che la pedagogia sta ormai dimostrando essere obsolete e inefficaci: incentrare tutto su voti e verifiche, utilizzare la paura come strumento di motivazione (se leggi Il danno scolastico, best seller di due anni fa sul tema, trovi proprio scritto nero su bianco che la scuola dovrebbe tornare agli anni ’70, quando si usava il terrore per far studiare).
Poi vai a vedere i numeri e scopri che il 12% dei nostri studenti non finisce gli studi. Un dato allarmante che, però, sembra non allarmare nessuno.
- Raccontaci del ritorno sulla scena del professore Francesco Bove, già incontrato nel tuo precedente romanzo, Eppure cadiamo felici (Garzanti, 2017). Perché hai sentito il bisogno di raccontarci nuovamente di lui? C’era ancora qualcosa di “non detto” e/o di irrisolto?
Mi son detto: in giro è pieno di serie dedicate a commissari e detective: perché non creare anche una serie dove invece il protagonista è un professore? E poi è un personaggio talmente amato, da me e dal pubblico, che sono abbastanza sicuro questa non sarà la sua ultima volta…
- Ex professore Bove vs Teo Limiti: quali aspetti o sfaccettature ritieni di poter “salvare” in entrambi? E quali “zone buie”, ombre appartengono rispettivamente all’ex professore e all’alunno?
Sono due idealisti in un mondo che pretende di ridurre tutto alla mera realtà; sono due errori ambulanti in un mondo il cui solo imperativo è la perfezione; sono due vagabondi in un mondo dove i vincenti sembrano essere solo quelli che sanno bene dove andare. Ecco forse perché è così facile provare empatia per loro.
- Il mondo animale è il baluardo del giovane protagonista Teo, un’àncora di salvezza che gli infonde curiosità e stimoli, appassionandolo. Inoltre, fra le pagine sono ricorrenti diverse illustrazioni di singoli animali, ciascuna accompagnata da una descrizione comportamentale e da una “morale”. Perché la scelta di osservare il mondo, la società attraverso questa prospettiva? Quali spunti, riflessioni e parallelismi offre questa particolare “lente di ingrandimento”?
Tutti i miei protagonisti sono in cerca di chiavi di lettura del mondo: c’era Gioia (Eppure cadiamo felici) che usava le parole di altre lingue, c’era Pietro (Geografia di un dolore perfetto) che usava gli strani aneddoti della geografia… in questo caso Teo sceglie il mondo animale perché gli offre degli esempi, delle possibili risposte, e lui ne è sempre assetato.
Morale: di quando in quando, fa bene anche saper essere Falena del Madagascar.
Asciugare lacrime altrui, insospettabilmente, può darti tutta la forza di cui hai bisogno.
- All’inizio del romanzo poni l’attenzione su questo aspetto: una persona manca a sé stessa. Si parla spesso di malinconia, di nostalgia, del sentire la mancanza di qualcuno o di qualcosa, e invece tu scegli di concentrarti sulla mancanza del proprio io, del “me stesso”. Quanto è fondamentale e difficile riconoscersi in questo stato d’animo e colmare questo vuoto emotivo? Personalmente, ti sei ritrovato in questa condizione nel corso della vita? Se sì, in che modo sei riuscito a “recuperare te stesso”?
Sono quasi sicuro che tutti, prima o poi, sentano la mancanza di sé. Cioè del vero sé: è quando a forza di inanellare scelte sbagliate ti ritrovi a vivere una vita che non è più la tua. Quando succede è una benedizione: è come una voce che ti chiama a tornare in te. Tutto sta in quanto coraggio si ha di ascoltare quella voce e riprendere in mano la propria vita.
Non era cattiva, la Cosa. Non è mai stata cattiva. Lo diventa quando viene rinchiusa dietro sbarre invisibili. Quando lui non si esprime e non butta fuori l’inchiostro che ha dentro. Quando non lo trasforma in parole.
- Quanto credi all’affermazione “L’arte salverà il mondo”, a questa sorta di “salvagente” a cui l’uomo può o dovrebbe aggrapparsi quando l’acqua è troppo alta e sta per affogare?
Da zero a cento, cento. Ma non nel senso che fruire arte può salvare: farla. Esprimere le proprie emozioni attraverso scrittura, musica, colori, danza, cinema, qualsiasi forma d’arte. Ecco, è questo che può salvare davvero le persone. Per me è stato così.
- Confidi maggiormente nell’ascolto, nel dialogo o nella scrittura? Quale predisposizione ti appaga, ti consola e ti fortifica di più?
Essendo un introverso, punto tutto sull’ascolto e sulla scrittura. Nel dialogo mi sembra sempre di non riuscire a dire tutto quello che ho da dire e come lo voglio dire. Quando sono davanti al mio pc però è diverso, lì sono libero di buttarci dentro ogni anfratto del mio cuoricino. Quindi sì, decisamente la scrittura!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Enrico Galiano, in libreria con “Una vita non basta”
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