

Ogni giorno, da ogni punto di vista, vado sempre meglio.
Una frase da pronunciare, sottovoce o con tono deciso (a voi la scelta), preferibilmente davanti a uno specchio, come un mantra. Col solo obbligo di ripeterla più e più volte, ben convinti. Ogni giorno, da ogni punto di vista, vado sempre meglio. Ogni giorno, da ogni punto di vista, vado sempre meglio. Ogni giorno, da ogni punto di vista, vado sempre meglio. Ogni giorno. Da ogni punto di vista. Io. Vado sempre meglio! So che sembra una scena un po’ surreale, e a farlo ci metteremmo tutti nascosti in qualche angolo buio, facendo ben attenzione a essere fuori dalla portata di orecchie indiscrete, anche se amiche. Eppure è questa la chiave del metodo Coué, tutto improntato sull’autosuggestione; non sia mai che, a praticare rigorosamente questo semplice rituale, si possa rendere più solida l’autostima e invertire la tendenza del proprio percorso di vita verso lidi più gioiosi, o perché no? risolvere un problemuccio di calvizie, le carognate di un’infermità, uno stato d’animo grigio che ci affumica l’esistenza.
Al creatore di questo metodo è dedicato il nuovo romanzo dello scrittore francese Étienne Kern, che dopo Il sarto volante, vincitore nel 2022 del prestigioso premio Goncourt per l’opera prima, torna nel catalogo della casa editrice L’Orma con La vita migliore (2025, traduzione di Anna Scalpelli).
“La vita migliore”: trama del romanzo


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Il romanzo, intenso a ogni pagina ed equilibratissimo, è il resoconto di vita, tutta in salita verso il successo, di Émile Coué, un uomo mite nato a Troyes nella seconda metà dell’Ottocento e passato alla storia, come suggerisce il sottotitolo, per aver inventato l’autosuggestione.
Dopo l’infanzia e un’adolescenza comuni, Coué trascorre la prima parte della sua vita adulta indossando il camice da farmacista in un piccolo borgo ben lontano dalla capitale. Un’esistenza come tante altre, passata a gestire l’ingombrante volere paterno e a scendere a compromessi con gli accidenti della vita, modificando di volta in volta le proprie aspettative. C’è ovviamente anche l’amore, quello per Lucie, in una relazione che plana fino al matrimonio ma che, sgambetto fra gli sgambetti, non riesce a sbocciare nella nascita di un figlio. Fino al momento in cui bussa alla sua porta una donna.
Émile scuote la testa: niente ricetta. Lei insiste, vuole del laudano. Lui tace, riflette un momento, alla fine le rivolge quel sorriso disarmante, sincero e commerciale che più tardi sarà il suo marchio di fabbrica. La voce è dolce, le chiede di aspettare un secondo. Nel retrobottega prende acqua distillata, zucchero, colorante. Sulla bottiglia scrive parole difficili, dosaggi. Torna, porge il flacone alla signora, attenzione è molto pericoloso, due gocce al massimo.
Il giorno dopo, la donna è di nuovo lì, vuole solo ringraziarlo, il rimedio è una meraviglia.
Il celebre effetto placebo fa accendere nella mente di Émile una scintilla e la lezione gli si palesa chiara davanti agli occhi:
L’illusione è un farmaco. L’unico valido, forse.
Con non poca fatica, il farmacista mette in piedi la struttura del suo metodo: i dubbi iniziali sono tanti, gli sguardi di incomprensione numerosissimi, ma lo studio inizia a riempirsi, la coda davanti la porta di casa sua ad allungarsi, gli appuntamenti alle sue sedute a intensificarsi e il suo nome a farsi largo sempre più, fino a raggiungere Parigi e a superare i confini nazionali. A farla breve, Coué diventa una star internazionale; nella scena che apre il romanzo, questo individuo dal viso bonario e l’espressione pacifica sbarca dal transatlantico e mette piede sul suolo americano, senza avere il tempo di comprendere bene cosa stia accadendo prima che gli si affollino intorno decine di fotografi a giornalisti che sono lì per lui.
Ciarlatano più o meno consapevole, guru ante litteram, precursore dei metodi di buon vivere e del pensiero positivo, Émile Coué ha colto perfettamente le necessità del suo tempo. Parallelamente ai primi passi della psicanalisi, in un periodo fra le due guerre che è sinonimo di instabilità e voglia di migliorie, il libricino di Coué (ancora presente, oggi, nelle librerie francesi) dà alla gente la giusta dose di speranza, incastonando l’immaginazione al centro della rete di energie che possono e devono influire sul nostro quotidiano. Coltivare sé stessi con la stessa cura con la quale il suocero, orticoltore, si prendeva cura delle piante e dei germogli: questo è lo scopo del protagonista. E le parole di questo “professore di ottimismo” arrivano alla corte inglese, i suoi principi affascinano Katherine Mansfield negli ultimi mesi di vita e arrivano dritti dritti, semplicemente tradotti, in una delle canzoni più intense di John Lennon.
Before you go to sleep, say a little prayer: Every day, in every way, it’s getting better and better, beautiful, beautiful, beautiful, beautiful boy.
L’intervista a Étienne Kern
- Franz Reichelt e la sua caduta nel suo primo romanzo, Il sarto volante, e adesso Émile Coué. Alla base delle sue opere ci sono video e fotografie, piccoli frammenti di due esistenze che giungono direttamente dall’inizio del secolo passato. Da dove viene questo fascino per individui geniali destinati al fallimento?


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In effetti, Il sarto volante e La vita migliore formano un dittico: i due protagonisti, dei maldestri filantropi, si somigliano. Amo questa tipologia di personaggi, che incarnano alla lontana il “grottesco triste” caro a Flaubert.
La cosa che mi attira in loro credo sia la figura degli utopisti e degli idealisti in procinto di cadere nel ridicolo: l’accecamento e il desiderio li portano talmente lontano da spingerli a rifiutare il reale. Arrivano al punto in cui il ridicolo ruota su sé stesso per diventare sublime: e con questa tensione, con questo fragile equilibrio, ci offrono una sorta di concentrato della condizione umana.
- Lei parla de La vita migliore come di un romanzo venuto fuori da tutta una serie di ricerche, ma scritto con l’immaginazione. Può parlarci del rapporto fra verità e ricostruzione romanzesca nella scrittura della vita di Coué?
La vita migliore è un romanzo e, in quanto tale, non propone lo stesso patto al lettore di una biografia o di un racconto d’inchiesta: rivendico una certa dimensione soggettiva nel mio progetto su Coué e questo mio approccio, che definirei un po’ giocoso, consiste nell’immaginarmi (in parte) la vita di un uomo che ha messo l’immaginazione al centro della sua esistenza (perché il metodo Coué, ci tengo a ricordarlo, si fonda sull’immaginazione: per essere in buona salute, occorre iniziare con l’immaginarsi di essere in buona salute).
Detto questo, l’opera si nutre di lunghi studi di documentazione ed è proprio nelle testimonianze dell’epoca che ho visto delinearsi man mano l’immagine di un uomo allegro e malizioso, ma al contempo dotato anche di una disarmante ingenuità e, soprattutto, più tormentato di quanto non si potrebbe credere (un testimone racconta che gli si poteva scorgere una “specie di dolore sul cuore”). Posso dunque dire che, nel testo, tutto ciò che fa riferimento all’esplorazione dei moti intimi di Coué sia inventato: i rapporti coi genitori, i rapporti con la moglie. Così come ho inventato l’episodio della guarigione ai limiti del miracoloso della piccola Annette, basandolo su documenti autentici.
- C’è anche un secondo binomio, che costituisce uno degli elementi più interessanti dei suoi romanzi: da un lato i tratti biografici di un uomo e dall’altro la sua stessa autobiografia, costituita dai suoi rapporti con individui che ha incontrato e amato. Da cosa deriva quest’intromissione del personale nelle sue pagine?
In partenza, questo intreccio non era previsto: lo avevo già fatto ne Il sarto volante (dove metto in relazione la storia di Franz Reichelt, che salta già dalla torre Eiffel nel 1912, e quella di mio nonno, morto per una caduta accidentale) e non volevo riprodurre questa stessa procedura. Ma, nel 2020, il mio padrino e la mia madrina sono stati ricoverati in ospedale, nel momento esatto in cui era nato in me il desiderio di scrivere su Émile Coué: così, le mie preoccupazioni affettive e letterarie si sono sovrapposte, e alla fine ho capito che ciò che mi attirava verso Coué aveva qualcosa a che fare con il mio padrino e la mia madrina, che da quando li conosco sono sempre stati gravemente malati. Ho visto in loro come il riflesso contemporaneo dei malati ai quali Coué poteva rivolgersi.
Scrivere di loro mi ha dato l’illusione di poter fare qualcosa per loro. Per quanto mi riguarda, anche se risulta secondario rispetto al numero di pagine, sta qui il cuore del libro. D’altronde cito in esergo una frase di Roland Barthes, dove dice che se si scrivono romanzi è per “celebrare coloro che amiamo”.
- La magia dell’immaginazione e il suo potere nel quotidiano, che Coué mette al centro del suo metodo, sono parecchio interessanti e utili per la sua epoca, in un momento storico che coincide con la fine della Prima Guerra mondiale. Ma quale segreto possono svelare a noi, uomini e donne del XXI secolo?
Hai ragione, il successo mondiale del metodo Coué, negli anni Venti, deve molto al contesto: all’epoca c’era estremo bisogno di credere in giorni migliori, dopo il primo conflitto mondiale! Ma un secolo dopo, Émile Coué resta estremamente presente nel nostro mondo: è uno dei principali precursori del pensiero positivo e dello sviluppo personale.
Ho qualche perplessità sullo sviluppo personale che, col pretesto del benessere, cerca spesso di rendere gli individui ancora più solubili al sistema capitalistico (basti pensare a quei libri che ci insegnano a dormire di meno o ad aumentare l’efficacia personale), ma resta il fatto che la primissima intuizione di Coué merita di essere considerata seriamente: la nostra salute dipende anche dal nostro spirito. Certo, le forze che determinano nel profondo la nostra esistenza, che siano fisiologiche o sociale, sono infinitamente più forti dell’autosuggestione e del potere dell’immaginazione, ma ci resta comunque un piccolo spazio di libertà.
Da quando il mio libro è stato pubblicato in Francia, ho incontrato tantissimi lettori che mi hanno ammesso di praticare alla loro maniera il metodo Coué, e che è loro di grande aiuto. Penso soprattutto a una lettrice che mi ha raccontato come, durante il periodo in cui è stata malata di cancro, si addormentasse ogni sera ripetendosi “domani, io sarò viva”.
- Lei ha detto di condividere con Émile Coué la sua natura da ciarlatano. Perché?
È un po’ una boutade, che metto nel libro. Io non credo che Émile Coué sia stato un ciarlatano: era davvero convinto della sua teoria, e non si faceva pagare. E io, sono forse un ciarlatano? È vero che, come hai sottolineato nella tua seconda domanda, unisco elementi che so essere veri ad altri di finzione… Ma dico anche che il libro è un romanzo, così che il lettore sappia fin da subito che non deve prendere il racconto come oro colato. La vera ciarlataneria sarebbe stata quella di presentare il libro come fosse una biografia.
Detto questo, al di là della questione della ciarlataneria, la cosa che mi ha realmente intrigato nel personaggio di Coué è tutto ciò che ha in comune con la figura dello scrittore. C’è, a ben vedere, una possibile analogia fra il metodo Coué e la scrittura: in entrambi i casi si punta sul potere delle parole, si chiama in causa l’immaginazione e si prova il desiderio, o l’illusione, di poter cambiare qualcosa nella propria vita. Arriverei fino a dire che Coué è un poeta, a modo suo: affermare che l’immaginazione è più potente del reale è agire come Rimbaud o i Surrealisti!
- Ogni giorno, da ogni punto di vista, vado sempre meglio: funziona, nella stesura di un romanzo?
Quanto vorrei poter dire di sì…
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Étienne Kern, in libreria con “La vita migliore”
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