La stagione bella (Garzanti, 2024) di Francesco Carofiglio è un romanzo “sensoriale” che commuove, accarezza e sa smuoverti, in modo delicato, nel profondo. Personalmente, sono attratta e coinvolta da storie che si affidano al linguaggio dei sensi, a una soffusa e al contempo permeante intimità, per scandagliare e interpretare l’animo umano nei suoi vari chiaroscuri.
Ed è questa, da sempre, la “cifra” di Francesco Carofiglio, un autore capace di veicolare emozioni e sensazioni profonde grazie al tatto e alla delicatezza con cui sa addentrarsi nelle trame e maglie complesse del vissuto di ogni individuo, che sia il protagonista o un personaggio secondario.
Le sue pagine sanno sempre catturare l’attenzione e mantenere vivo il coinvolgimento del lettore in modo diretto e intenso ma mai violento o crudo, piuttosto la ricerca e la creazione da parte di Carofiglio di una profondità e intensità di fondo è puntualmente garantita dalla immediatezza, tangibilità e veridicità proprie dei nostri sensi, che sia ogni volta olfatto, tatto, vista o udito.
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Ne La stagione bella Viola ha quarant’anni. Nuota, ogni giorno. Sin da quando era bambina. Decine di vasche avanti e indietro, mentre fuori, il mondo, sparisce. Le sue giornate sembrano muoversi nell’ipnosi leggera di un tempo fermo, e invecchiare non c’entra, c’entra la sua vita, quella che esiste, quella che non è mai esistita. Forse tutto è cominciato quando sua madre è andata via, troppo presto. O forse molto prima, Viola non può saperlo. Figlie uniche entrambe, orfane entrambe di un padre mai esistito. Strette da un legame felice e indistruttibile, per tutta la vita.
Nella sua bottega, a Milano, Viola crea fragranze per una Maison francese. Dentro quella bottega riceve persone che grazie agli odori cercano, e a volte ritrovano, una strada perduta, curano la memoria ferita con l’olfatto. E mentre Viola compie l’operazione minuziosa del riordino nella casa della sua infanzia, succede qualcosa, tra gli odori di canfora e di lavanda. In un cassetto c’è una scatola, mai vista prima, ci sono lettere, fotografie e un nastro registrato di quando Barbara viveva a Parigi, prima che lei nascesse. Forse dentro quella scatola si nasconde un segreto. Il segreto di tutta la vita.
[…] provo un sentimento che non so descrivere, una specie di nostalgia per quello che non ho mai vissuto, per tutto quello che non vivrò.
Ne abbiamo parlato con Francesco Carofiglio in questa intervista.
- Partiamo dal titolo, La stagione bella: quanto c’è in esso di suggestioni e atmosfere meteorologiche e quanto metaforicamente di “stagioni umorali”, ovvero di fasi o parentesi legate all’animo umano? Quali richiami ed echi confluiscono in lui?
La stagione bella non è, evidentemente, la bella stagione. Quindi nulla di meteorologico. È un passaggio nell’esistenza della protagonista, delle protagoniste, che lascia un segno, o potrà lasciarlo. Lascio l’interpretazione, o la scoperta, a chi leggerà.
- Cosa si sente di raccontarci in merito alle suggestive parole introduttive firmate da Virginia Woolf? Perché la scelta di quei due particolari e significativi quesiti esistenziali?
La citazione in esergo rimanda a una sospensione dell’anima, che credo rappresenti perfettamente il senso della storia. Una sospensione dell’esistenza per chi, come Viola, sta cercando un posto nel mondo.
Siamo tutti alla disperata ricerca di un segnale, una traccia, qualcosa che riporti al passato, e dia un senso al presente.
- Sappiamo che la protagonista, la quarantenne Viola, da sempre ha una passione per il nuoto. La scelta di questo sport, del contatto quotidiano con l’acqua della piscina, funge da metafora narrativa per descrivere l’immersione nelle profondità del proprio animo, compiuta non solo dalla protagonista, ma anche da parte sua come uomo? Ѐ un rituale valido a comprendere meglio il proprio mondo interiore e quello esterno, circostante, o a volte può rappresentare anche una via di fuga necessaria da quest’ultimo?
L’acqua è uno dei “personaggi” del romanzo. Quella della piscina in cui Viola si allena un’ora al giorno sin da quando era bambina. Quella del mare, dell’oceano, che rimandano a stagioni diverse e che, in qualche modo, accolgono un rito di iniziazione alla vita. E infine c’è l’acqua, nella metafora, del ventre materno.
C’è un confine così sottile tra dolore e bellezza, in questa sopravvivenza subacquea, nel fluire ordinato dei corpi, nella successione ritmica delle bracciate. Tutto si confonde, la mia vita di lettere lasciate a metà, le domande senza risposta, l’ebrezza della giovinezza, il futuro che non esiste, tutto si lascia cullare in una luce aurorale.
- «Mi sono sempre sentita protetta da questo silenzio, […] Questa è l’ora del nessuno.» Già dalle prime pagine, e nel corso della narrazione, viene data enfasi al concetto di silenzio, che viaggia in parallelo con quello di solitudine. Il silenzio, a volte, è da interpretare come un’àncora di salvezza, come un rifugio da un mondo (troppo) rumoroso, da una società che può ingabbiare o risucchiare?
Non sono molto a mio agio nel dare consigli sull’interpretazione delle storie che scrivo. Lascio che il lettore sia libero di decidere, come è giusto che sia. La narrazione, in questo caso, procede per scavi successivi. Per sottrazioni. È stata una ricerca lunga, un’applicazione quotidiana. I silenzi ne sono parte integrante e hanno, per me, l’identica dignità delle parole.
- «Io non mi mossi, la vidi nuotare in quel mondo invernale. E non riuscii a capire se fosse felice, o disperata.» Con queste parole Viola ricorda una giornata al mare trascorsa in passato con la madre Barbara. Ѐ un modo per affermare che possono esistere gesti “ibridi”, comportamenti “sfocati”, ovvero azioni altrui che non riusciamo a interpretare nel giusto modo? E quanto spesso da spettatori e testimoni corriamo il rischio di essere miopi, se non addirittura ciechi, di fronte a questi gesti?
Credo che il segreto risieda nella capacità di osservare, e di non giudicare. Io ho provato a farlo, raccontando questa storia, stando accanto alla protagonista e lasciando che i suoi gesti, le sue parole muovessero liberi. La suggestione che lei propone sui gesti ibridi è interessante, ci rifletterò.
- Il tratteggio di personaggi femminili simili, come lo sono Barbara e Viola, entrambe orfane di padre e figlie uniche, è funzionale alla costruzione della storia narrata, finalizzato a trasmettere messaggi precisi, a porre quesiti e a stimolare riflessioni?
Barbara e Viola sono figlie uniche entrambe ed entrambe orfane, ma non si somigliano affatto. Le loro personalità si sono modellate, l’una sull’altra, per amore, necessità e talvolta per disperazione. Questo credo, o forse mi auguro, possa essere un motivo di riflessione.
Penso al mio tempo. Quello trascorso, alle cose non dette, temute, proibite, annientate. E non so più chi sono e chi potrò ancora essere, dopo questa rivoluzione.
- La figura di Viola è piuttosto interessante, perché di lei sappiamo che dopo essersi laureata in psicologia non ha mai esercitato la professione, eppure si dedica a “consulenze olfattive” nel suo laboratorio a Milano - una bottega di fragranze -, volte a placare, curare le sofferenze delle persone attraverso l’olfatto. Per cui, è interessante la chiave di lettura di affidarsi non solo al semplice ascolto e dialogo, come farebbe un terapeuta, ma rafforzarli e completarli mediante il ricorso ai profumi e agli odori. Quanto è fondamentale nella vita il recupero dei sensi, della loro memoria?
Spesso sottovalutiamo il ruolo del corpo, il nostro corpo, nel sistema di relazioni col mondo. Quasi sempre viviamo scissi, da una parte la sfera dell’immaginazione, delle proiezioni ideali, della razionalità, dall’altra quella dei sensi, che non conosciamo mai abbastanza. Viola, nel corso della storia, comincia a entrare in contatto col corpo, il suo, quello degli altri, in maniera nuova, differente, ma è una ricerca che chiede tempo e pazienza. I sensi, non solo l’olfatto, in questa storia hanno un ruolo centrale.
- Si percepisce fra le pagine una sorta di “adagio cinematografico”, mi piace definirlo così, ovvero un soffermarsi su sequenze lente e precise di piccoli gesti, dettagli e particolari, osservati e descritti dalla voce narrante con estrema cura.
Questo indugiare su movimenti brevi e sulle percezioni sensoriali dei personaggi rappresenta una particolare “cifra” stilistica funzionale a… cosa ha voluto comunicare al lettore? Quale messaggio e significato si cela dietro quest’ultima?
Mi piace molto l’idea dell’adagio cinematografico, credo di riconoscermi in questa suggestione. Però non scrivo nella prospettiva strategica di inviare un messaggio, non è questo il mio compito. Può accadere che chi legge possa scoprire qualcosa, nascosta tra le pagine, tra le parole, e forse tra i silenzi. Forse il messaggio, nei romanzi, è quello che ciascun lettore ha voglia, o bisogno, di scoprire.
- Lungo il corso della narrazione, il ritrovamento per mano di Viola nella casa d’infanzia di una scatola mai vista prima e contenente alcuni oggetti appartenuti alla giovane madre sprigiona una serie di dinamiche narrative legate a un segreto.
Nella vita di un uomo, i segreti sono inevitabili, frequenti, necessari? Sono ombre, lacune, chiavi di lettura o mezzi di sopravvivenza? Quale opinione o sensazione nutre a riguardo?
I segreti sono segreti. Meglio non raccontarli.
Non ho mai avuto segreti per Barbara, e lei per me. Questo è quello che ho sempre pensato, fino a oggi.
Recensione del libro
La stagione bella
di Francesco Carofiglio
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Francesco Carofiglio, in libreria con “La stagione bella”
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